Francesco Maccianti: «Non è mai un problema di stile, ma di un’esigenza artistica.»

di Enzo Boddi

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Francesco Maccianti (foto di Roberto Cifarelli)

Il pianista fiorentino Francesco Maccianti, da oltre quarant’anni sulla scena, incide di rado
e solo quando sente di aver qualcosa da dire. Ma con le parole se la cava altrettanto bene, proponendo riflessioni di notevole interesse

Francesco Maccianti, pianista e compositore (Firenze, 1956), è una figura atipica nel panorama jazzistico nazionale. Non solo perché affianca alla propria attività musicale una professione completamente diversa (quella di dentista), ma perché distilla con parsimonia la propria produzione da leader. Se si scorre la sua discografia, dal 2000 in poi, si può constatare come le sue pubblicazioni abbiano una cadenza distanziata e regolare: «Crystals» (Almar, 2004), con Essiet Okon Essiet e Joe Chambers; «Songs For Ama» (Almar, 2008), in piano solo; «Passo a due» (Almar, 2012), con Pietro Tonolo, Ares Tavolazzi ed Eliot Zigmund. Fino al più recente lavoro, «Path» (Abeat, 2018), denso di significati personali e inciso con Tavolazzi e Roberto Gatto. Strumentista di formazione classica, Maccianti si è costruito un solido bagaglio jazzistico sia frequentando i corsi tenuti da Franco D’Andrea a Siena Jazz sia sul campo: contribuendo alla vitale scena musicale fiorentina degli anni Settanta e Ottanta anche come co-fondatore del Centro Attività Musicali «Andrea del Sarto»; suonando con una miriade di musicisti italiani e stranieri, tra cui Eddie «Lockjaw» Davis, Harry «Sweets» Edison e Sal Nistico.

Di quel periodo vale la pena ricordare anche la partecipazione al quintetto di Mario Schiano – documentato da «Test» (Red Records, 1977) – con Maurizio Urbani, Nicola Vernuccio e Ivano Nardi, nonché la lunga militanza nel quartetto di Massimo Urbani, assieme a Enzo Pietropaoli e Giampaolo Ascolese. Venendo a tempi più recenti, Maccianti è membro stabile del Living Coltrane Quartet, fondato da Stefano «Cocco» Cantini e completato da Tavolazzi e Piero Borri. Il quartetto porta avanti l’eredità spirituale di Coltrane, come testimoniano «Living Coltrane» (Incipit, 2011), «Out Of This World» (Incipit, 2012) e «Writing 4 Trane» (Alfa Music, 2015). La pubblicazione di «Path» è stata il pretesto per una lunga chiacchierata.

Quali sono i presupposti che hanno favorito la genesi di «Path»?
Prima di tutto, scrivo e produco dischi solo quando ho qualcosa di veramente importante da dire. «Path» è nato dall’improvvisa esigenza di recarmi a Santiago de Compostela in seguito alla morte di mio fratello Nicola, scomparso tragicamente il 2 maggio 2016 a cinquantacinque anni. Con lui avevo condiviso tante cose, compresa la musica (era un sassofonista). Non mi chiedere il perché di questa scelta: da una piccola curiosità è nata una necessità impellente. Nonostante non ci fosse alcuna motivazione di ordine religioso, devo ammettere che quell’esperienza mi ha fatto molto bene. Del resto, il Camino è una situazione molto eterogenea: ci sono infatti persone di ogni provenienza, cultura e religione.

Francesco Maccianti (foto di Roberto Cifarelli)
Francesco Maccianti (foto di Roberto Cifarelli)

Dunque, non è come andare a Medjugorje …
Assolutamente no! Anzi, io ho avvertito chiaramente la spiritualità del luogo, la sua vera essenza. E dire che da principio non sapevo neanche dove fosse la Galizia. Durante il cammino, molto spesso in silenzio e in compagnia di un amico vero, il pensiero della musica era sempre vivo e presente. Ho messo a punto delle idee: alcune me le sono appuntate lì per lì, altre le ho buttate giù dopo il ritorno a Firenze. Così il disco è nato quasi spontaneamente. All’inizio volevo farlo con Joe Chambers, ripetendo l’esperienza del 2004. Poi, per vari motivi, ho pensato che Roberto Gatto fosse più adatto, più fresco e rispondente al tipo di musica che volevo fare. Inoltre sono legato a Roberto e Ares da una sorta di identità, un percorso fatto anche di gusti musicali affini. Non ho avuto bisogno di spiegar loro più di tanto: hanno recepito perfettamente le mie intenzioni. Una cosa che mi ha molto colpito e gratificato è il fatto che non abbiano preso questo impegno come una «marchetta» o un favore da fare a un amico. L’hanno fatto in perfetta condivisione della musica, con un contributo attivo e personale. Oltre ad essere molto collaborativi, hanno perfettamente aderito al mio pensiero. Pensa che quasi tutti i brani sono stati registrati alla prima take. Come diceva Sun Ra: «La prima take è pura espressione».

All’ascolto si coglie – oltre all’attenzione alla melodia – anche la ricerca dello spazio e della dilatazione del tempo. Brani come Path, Narvali, Nuvole e Sunset hanno delle linee tematiche che si potrebbero cantare. In Sunset, nell’intervento di Tavolazzi, il contrabbasso «canta» e su certe melodie si potrebbero scrivere dei versi.
Certo, condivido. Non mi pongo mai grandi problemi quando scrivo, nel senso che non mi interessa affatto la continuità stilistica, quanto trovare piuttosto un ambiente musicale confortevole e confacente alle mie aspettative e prospettive. Questa osservazione nasce dalle mie esigenze di ascoltatore di tanti concerti cui tuttora continuo ad assistere. A volte sono annoiato da quello che sento: in quei casi non riesco a seguire e non mi diverto più. Devo divertirmi e questo non dipende necessariamente dalla melodia. Quando ascoltavo Ornette Coleman, che certo non era particolarmente melodico, mi divertivo moltissimo.
Del resto, il divertimento dovrebbe essere una componente essenziale dell’ascolto.
«Divertimento» è una parola semplice che sottintende un coinvolgimento emotivo. La musica deve prenderti e toccarti il cuore. Non è una questione di stile. Ascoltando Bill Evans, con quel suo modo pacato, e Thelonious Monk, con quell’approccio spigolosissimo, mi trovo di fronte a due stili diversissimi ma fondamentali nella mia formazione musicale. Infatti nel disco c’è un pezzo, Escamotage, che ho dedicato a Monk. Non voglio fare il giudice di nessuno ma, spesso, trovo che alla musica si anteponga tutta una serie di sovrastrutture che non giovano né servono. Quello che serve è il pensiero, perché ti dice dove vuoi andare. A volte, all’ascolto di certa musica, ho la percezione che non si sappia bene dove si vuole andare.

Se è per questo, ci sono anche persone che non amano affatto le costruzioni complesse di Steve Coleman o Steve Lehman.
Secondo me la proposta di Steve Coleman è molto interessante. Io ho ascoltato dei giovani molto validi: per esempio, il pianista Aaron Goldberg. Mi è piaciuto moltissimo anche un concerto del trio del contrabbassista Avishai Cohen con un bravissimo pianista…

Forse Nitai Hershkovits?
Esatto. Si percepisce chiaramente come quei musicisti sono legati alla loro tradizione. Apprezzo quel tipo di personalizzazione della musica. Anche Shai Maestro è un altro bravissimo pianista.

Cosa ti diverte ascoltare al di fuori dell’ambito jazzistico?
Ti dico la verità: ascolto molto volentieri Stravinskij. Recentemente ho sentito tre riduzioni per pianoforte da Petruška di una bellezza sconcertante. Adoro Ligeti per la brillantezza del pensiero delle sue opere pianistiche, basate su una serialità intelligente, funzionale alla musica e al pensiero che l’ha generata. Mi piace molto Alban Berg, ma al tempo stesso anche Schumann: adoro il suo concerto per pianoforte e orchestra. Trovo che i pezzi per liuto di John Dowland siano straordinari e mi piace tantissimo Monteverdi.

Visto che poco fa hai citato dei pianisti della nuova generazione, secondo te c’è stata un’evoluzione del piano trio?
Mi piaceva moltissimo Brad Mehldau, che però poi ha preso un indirizzo per me poco comprensibile. Sento comunque in lui questo forte peso specifico, specie per la profondità del suo fraseggio. Però, pur essendo ancorato alla tradizione, non mi sembra che sia riuscito a fare quel salto di personalità che credevo fosse nelle sue corde.

Francesco Maccianti «Path»Francesco Maccianti «Path»
Francesco Maccianti «Path»

E che ne pensi di Vijay Iyer?
Per la verità non mi è mai piaciuto; però ho insistito, arrivando perfino a comprare un paio di suoi dischi. Sarà forse un mio deficit strutturale ma non riesco a trovare dei motivi di interesse in questo pianista, così come – per altri versi – non ho mai potuto soffrire Oscar Peterson. Comunque sia, ognuno è libero di portare la propria proposta e questo è il bello della musica: che nessuno sarà mai uguale a un altro.

Mi sembra che tu stia ponendo quasi una questione di ordine filosofico.
Se uno vive male la sua condizione di musicista, spesso è perché vuole assomigliare a qualcun altro. Anche per questo io sono un «talebano» del pezzo originale: è lì che si vede se uno ha veramente qualcosa da proporre, se veramente è in grado di esprimere un proprio pensiero. Fare dei dischi di standard mi sembra un’operazione abbastanza sterile, a meno che non si riarrangino e personalizzino i contenuti. Dico sempre a me stesso: «Dovresti cercare di fare la musica che ti piacerebbe ascoltare». Del resto, si percepisce se c’è convinzione nella musica. L’ascolto è la cartina di tornasole. Alcuni dischi di Bill Evans – musicista che adoro, perché mi ha aperto un mondo straordinario – mi fanno rabbia: si sente chiaramente che sono dischi che dovevano essere fatti. Non ci si può fissare sui nomi o sulla fama delle persone, è fuorviante! Bisognerebbe invece essere più sereni nel giudizio. Anche Miles Davis, insieme a tanti capolavori, ha fatto delle cavolate. Sto parlando di un altro musicista che venero, perché mi ha insegnato tantissimo: per esempio, che non bisogna suonare sempre e che le pause sono necessarie. Ferruccio Busoni diceva: «La musica è musica». Può significare tutto e niente, ma credo che Busoni volesse dire che non importa se si tratta di un’ocarina o di un’orchestra mahleriana di centoventi elementi: è pur sempre musica, onde sonore che ti arrivano alle orecchie. Liberiamoci quindi dalle sovrastrutture e riportiamo tutto a quello che è: l’ascolto, la sincerità di ciò che ascolti, quello che ti tocca dentro.

A volte si nota un certo integralismo per cui si deve per forza apprezzare un dato musicista. Inoltre si collocano i musicisti in categorie molto rigide.
Succede anche a me. Molti non sanno che nel 1977 ho fatto un disco di free con Mario Schiano e ho partecipato al festival di Lovere, in cui figuravano Misha Mengelberg e Han Bennink. Io e quelli della mia generazione abbiamo vissuto un momento di creatività straordinaria in cui in Italia si poteva ascoltare il free: tanto quello vero (dall’Art Ensemble e Ornette Coleman fino a Schiano e Giancarlo Schiaffini) quanto, a volte, quello finto.
Quindi, tornando al discorso di prima, non è mai un problema di stile, ma di un’esigenza artistica che ti porta a compiere certe scelte. Non mi piace che le scelte siano forzate dall’incapacità di fare altre cose oppure dalla volontà di compiacere certa critica. Noto inoltre che di molti dischi pubblicati oggi si potrebbe anche fare a meno.

In effetti si assiste a una iperproduzione, alla faccia di coloro che avevano previsto la morte del cd.
Il mio amico Pietro Tonolo, che insegna a Siena Jazz, mi ha detto che l’ottanta per cento degli allievi gli porta il cd. Quando con Luca Flores e Patrizia Scascitelli frequentavamo i corsi di Franco D’Andrea a Siena, non ci saremmo mai sognati di portargli un nostro disco!

A proposito di didattica, puoi riassumere la tua esperienza in seno al C.A.M. (Centro Attività Musicali) «Andrea del Sarto» di Firenze?
Nel 1977 Nicola Vernuccio, Piero Borri, Sandro Morini e il sottoscritto abbiamo aperto il Centro Attività Musicali con molto entusiasmo e anche un po’ di incoscienza. La cosa ha funzionato talmente bene – all’epoca non c’erano molti concorrenti – che si è ingrandita e resa così importante da diventare un riferimento nazionale. Merito non solo di quelli che insegnavano ma anche delle stagioni concertistiche che si sono succedute con nomi veramente importanti. Si spaziava dall’Art Ensemble of Chicago ai Jazz Messengers, da Woody Shaw a Peter Brötzmann. Cito questi nomi solo per esemplificare anche l’estrema diversità di stili. Inoltre l’orchestra stabile, diretta da Bruno Tommaso prima e da Enrico Rava poi, ha registrato un programma per la RAI (a questo proposito ricordo una settimana di registrazioni all’«Andrea del Sarto») e fatto numerosi concerti in giro per l’Italia. Molti sono i musicisti usciti dalla scuola che calcano le scene con molto successo: Stefano Bollani, Nico Gori, Claudio Giovagnoli e molti altri.

Tornando a oggi, molti giovani allievi delle scuole di musica – anche tecnicamente preparati – conoscono solo parte della storia del jazz, mentre altri ignorano quasi completamente la tradizione, specialmente il jazz di anteguerra.
Forse perché non c’è curiosità e prevale una conoscenza settoriale. Ci sono poi delle tendenze alla moda. Ad esempio, trovo discutibile questa predilezione per la serialità con le sue forme ripetitive, quasi ipnotiche. Per il resto, lo capisco, la ricerca deve comunque andare avanti. A me invece piace pensare a una specie di discorso, con dei momenti di stasi e di enfasi, passaggi più concitati e più rilassati, silenzi. Un assolo, un’improvvisazione sono come un discorso.

Come sostenevano i grandi del passato, bisogna raccontare una storia.
Appunto. Il mio ultimo disco è una raccolta di fotografie, di storie, che apparentemente non hanno grandi nessi tra loro. Però, se si ascolta la successione dei brani, si individua una logica. Alcuni brani, scritti precedentemente ad altri, mi sono serviti come tasselli per trovare un fil rouge che li unisse tutti. Io mi sento di raccontare una storia e mi sento bene quando riesco a farlo.

Enzo Boddi

[da Musica Jazz, febbraio 2019]

Francesco Maccianti Trio presenterà il suo disco in concerto mercoledì 24 aprile in Sala Vanni (Firenze) ore 21:15 , serata che vedrà lo stesso Maccianti al pianoforte, Roberto Gatto alla batteria e Ares Tavolazzi al contrabbasso.