Forli Open Music: D’Istante

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Forlì Open Music D’Istante
L'Arena San Domenico - foto di Luciano Rossetti/PHOCUS Forlì Open Music D’Istante

Forlì, Arena

San Domenico 26-27 giugno

Il titolo scelto per la quinta edizione di Forlì Open Music: D’Istante, giocava argutamente su un doppio senso. Da un lato, le distanze rigorosamente rispettate nello spazio suggestivo dell’Arena San Domenico (nonché quelle purtroppo createsi in ambito sociale negli ultimi quindici mesi). Dall’altro, l’enfasi posta su Istante alludeva alla presenza di tre eventi incentrati sull’improvvisazione, nell’ambito di una rassegna comunque riservata in prevalenza a varie espressioni della musica contemporanea di matrice accademica. Da sottolineare anche l’inserimento nel cartellone di ben tre prime assolute e l’allestimento nello spazio prospiciente all’arena della mostra fotografica di Pietro Bandini, autore di alcuni splendidi ritratti di musicisti jazz. Questa edizione era idealmente dedicata a Claude Debussy, del quale alcune esecuzioni in programma hanno confermato la stupefacente modernità.

Tanto per cominciare, la Sonata del 1915, esemplarmente restituita da Francesco Dillon (violoncello) ed Emanuele Torquati (piano). Un esempio di sensibilità melodica, profondità armonica ed unità formale, caratterizzata da un’efficace alternanza tra l’azione incisiva dell’arco e un pizzicato brioso, da un impeccabile lavoro sul registro grave e da una prorompente carica ritmica. Nell’esecuzione di Syrinx (1912) a opera del flautista Manuel Zurria spiccano il soffio vitale, le finezze e le nuances timbriche, la concatenazione e l’assemblaggio di cellule melodiche.

Divisa in tre movimenti (Pagodes / La soirée dans Grenade / Jardins sous la pluie), Estampes (1903) è stata valorizzata dal pianista Ciro Longobardi attraverso fini tessiture e cascate cristalline di arpeggi, deviazioni verso modalità orientali, perfino vaghi sentori di ragtime. Composto per quartetto d’archi, il Quatuor op.10 (1893) – nella fattispecie il primo movimento, Animé et tres décidé in Sol maggiore – ha goduto di uno strepitoso arrangiamento per i quattro sassofoni (soprano, alto, tenore e baritono) del Sidera Sax Quartet, grazie a uno sviluppo corale animato da una dialettica feconda e da continui scambi circolari, e sempre contraddistinto da squisite valenze melodiche. Quattro dimostrazioni lampanti della poetica lungimirante di Debussy, la cui visione armonica informa tuttora molta musica moderna, jazz compreso.

Francesco Dillon ed Emanuele Torquati – foto di Luciano Rossetti/PHOCUS

Secondo una prassi consolidata, il programma ha concesso ampio spazio ai compositori contemporanei. Dillon e Torquati hanno affrontato To The Master (1974) di Giacinto Scelsi mettendone in luce il tessuto armonico essenziale, lo sviluppo narrativo articolato mediante un’interazione centellinata cellula per cellula, alcune dissonanze e certe inflessioni di matrice orientale care all’autore. Tratto dal repertorio dell’olandese Jacob TV (all’anagrafe Jacob ter Veldhuis), May This Bliss Never End (1996) è un’esecuzione ingegnosa scandita ritmicamente su segmenti ripetitivi ma diseguali di voci registrate. Una tecnica già ampiamente sperimentata, per esempio da Steve Reich in Coming Out e Different Trains. Occasionali pause e distensioni hanno la funzione di alleggerire temporaneamente la martellante tensione ritmica. Il lavoro richiede meticolosità e disciplina rigorosa, del resto connaturate agli esecutori.

Manuel Zurria – foto di Luciano Rossetti/PHOCUS

Per parte sua, Zurria ha spaziato attraverso differenti mondi espressivi. Klano Sutartinè del lituano Ričardas Kabelis si basa su una polifonia flautistica che finisce per creare una sorta di loop mediante un procedimento iterativo. Si apprezzano le impercettibili variazioni timbriche, la ricerca microtonale e microintervallare, benché alla fine rimanga la sensazione che il pezzo si avviti su se stesso.

Concepito per ottavino ed elettronica, Burning Is The Thing (2018) dell’australiano Anthony Pateras evidenzia una mirabile fusione timbrica tra strumento e macchina, ed è costruito sul lento, graduale accumulo di bande sonore stridenti, taglienti, a tratti urticanti. Il pezzo sfida (per chi scrive, con successo) le capacità uditive e presuppone grande rigore da parte del flautista.

In prima esecuzione assoluta, Rudran And Bija Mantras di Riccardo Nova scaturisce da una base elettronica di voci stratificate, su cui il flauto sovrappone frasi geometriche e iterative poi sostenute da un campionamento di tabla che sposta gli equilibri sul territorio della tradizione indiana. Un dato che la recitazione di mantra certifica definitivamente. Una scelta spiegabile con l’interesse di Nova, allievo di Giacomo Manzoni, per la musica carnatica.

Ciro Longobardi – foto di Luciano Rossetti/PHOCUS

Longobardi si è anche misurato con due giganti della musica del secondo Novecento. Dapprima Luigi Nono con … sofferte onde serene … (1976), per pianoforte e nastro magnetico, introdotta da radi e cupi accordi sul registro grave, costellata di dissonanze e clusters, provvista di possenti contrafforti e contraddistinta da un ampio spettro dinamico. Poi Olivier Messiaen con L’alouette Lulu, desunta dal Catalogue d’oiseaux (1956-1958), alimentata dalla contrapposizione insistita e parallela tra registri grave e acuto, e cosparsa nel suo lento procedere di trilli, arpeggi e grappoli di note.

Sidera Sax Quartet – foto di Luciano Rossetti/PHOCUS

Formato da Gianpaolo Antongirolami, Michele Selva, Michele Bianchini e Daniele Berdini, il Sidera Sax Quartet ha tributato un duplice omaggio al genio compositivo del contrabbassista Stefano Scodanibbio, scomparso prematuramente nel 2012. In prima esecuzione assoluta e in origine concepito per quattro trombe, Plaza (2001) è un piccolo prodigio di equilibrio tra forma e contenuto, tra disciplina e creatività, ricco com’è di richiami, intrecci contrappuntistici e preziosi intarsi ricamati da quattro sax soprani opportunamente disposti agli angoli dell’arena in modo da creare un effetto quadrifonico e giocare con la dimensione spaziale. Lucida Sidera (2004) vede invece i sassofonisti all’opera nella costruzione di polifonie concitate, alternando le varie ance a loro disposizione in assetti continuamente cangianti. Per esempio, due tenori più due soprani, quattro tenori, quattro soprani e via discorrendo.

Enrico Malatesta – foto di Luciano Rossetti/PHOCUS

Altra prima assoluta, Melody – For Malatesta dell’americano Michael Pisaro-Liu, per Almglocken (campanacci) intonati ed elettronica, era affidata al percussionista Enrico Malatesta, destinatario della dedica. Una composizione monolitica, non priva di un certo fascino dettato dalla fissità ipnotica generata dal bordone elettronico e dallo scandire metodico dei campanacci. Risonanze metalliche, frequenze e altezze evocano tracce di culture etniche e richiami atavici.

Fabrizio Ottaviucci – foto di Luciano Rossetti/PHOCUS

Una sostanziosa porzione della manifestazione è stata destinata all’improvvisazione, realizzata da musicisti di estrazione assai diversa. Sopraffino specialista di Scelsi, Cage e Curran, il pianista Fabrizio Ottaviucci ha riversato il suo magistero in un sorprendente processo di disgregazione e riaggregazione, fatto di sussulti ritmici, blocchi accordali, grovigli prontamente dipanati, secchi clusters, saliscendi sulla tastiera in forma libera. In tal modo, da musicista di formazione accademica si è avvicinato a territori battuti da eminenti esponenti del pianismo jazz: da Cecil Taylor a Paul Bley, dal Chick Corea di Piano Improvisations e Circle a Matthew Shipp. Il retroterra classico contemporaneo emerge dalla progressiva rarefazione del suono, dalla certosina abilità di distillare la materia cellula per cellula e dosare le dinamiche.

Elio Martusciello – foto di Luciano Rossetti/PHOCUS

Singolare figura di autore/esecutore/improvvisatore, maestro dell’elettronica e fautore della musica acusmatica, Elio Martusciello produce sequenze caleidoscopiche in cui si avvicendano e si intersecano suoni di tastiere e percussioni, distorsioni, effetti ambientali di vita reale, rumorismo e rimandi alla musica concreta teorizzata da Pierre Schaeffer. Suoni a tratti squassanti, assordanti che sembrano simboleggiare l’alienazione della società post-industriale. Che piaccia o no, sono tessere indispensabili di un mosaico multiforme, rappresentativo della civiltà occidentale e assemblato con acume.

Alexander Hawkins – foto di Luciano Rossetti/PHOCUS

A chiudere la rassegna della Forlì Open Music: D’Istante è stato invitato il pianista inglese Alexander Hawkins, noto in campo jazzistico per le sue molteplici iniziative, tra cui le collaborazioni con Louis Moholo-Moholo ed Evan Parker. Così come Ottaviucci aveva sconfinato nel campo di un’improvvisazione in parte affine alle forme libere adottate da certi jazzisti di avanguardia, Hawkins ha fatto un percorso quasi inverso esplorando le possibilità timbriche dello strumento, sottoposto a varie preparazioni riscontrabili dopo un attacco martellante, ossessivo. Da tale processo scaturiscono timbri affini a metallofoni del gamelan balinese o a modelli di piano a pollice africano come mbira e kalimba.

Certe progressioni, fondate su cupe figurazioni ritmiche, richiamano l’eredità di quel jazz sudafricano che tanto ha influito sulla scena musicale inglese. Tuttavia la matrice jazzistica trapela di rado, come in certe figurazioni walking costellate di dissonanze o in alcuni fugaci echi della tradizione. Addirittura certe costruzioni ritmiche eseguite in modo iterativo – a velocità e con intensità diverse- alludono al minimalismo, a dimostrazione ulteriore della poliedrica identità del pianista.

Seppur non priva di qualche limite o difetto strutturale ed espressivo, la performance di Hawkins è stata specchio fedele di un festival coraggioso, pronto ad affrontare i rischi del caso ma premiato dalla folta presenza di un pubblico attento e appassionato.

Enzo Boddi