Food: sulle differenze si basa la nostra stabilità

Da tempo, il batterista Thomas Strønen e il sassofonista Iain Ballamy hanno ridotto all’osso la struttura della loro band Food, che da quartetto si è trasformata in duo. Ecco perché

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Food - foto Nadia F. Romanini

Come si è sviluppata la vostra collaborazione artistica?
Iain Ballamy: La band si è costituita molti anni fa, nel 1998, quando ho conosciuto Thomas. Abbiamo iniziato come quartetto, con il trombettista Arve Henriksen e il bassista Mats Eilertsen. Nel giro di cinque o sei anni abbiamo perfezionato l’abilità di suonare assieme, concentrandoci su cosa fosse davvero emozionante per il gruppo. Poi io e Thomas abbiamo cambiato formula e ricominciato in duo: una formula essenziale ma con un’identità forte, che ci consentiva di invitare altri musicisti. Così abbiamo coinvolto svariati trombettisti, chitarristi, tastieristi, una volta anche dei violinisti. Tante facce nuove che potevamo coinvolgere nella nostra ricerca creativa.
Thomas Strønen: Fare il musicista implica la necessità di crescere senza sosta e incontrare artisti provenienti da tutto il mondo: è necessario iniziare nuovi progetti, creare nuovi gruppi. Oggi gran parte dei musicisti suona in più gruppi, e così capita a noi. Qui a Torino, per esempio, suoniamo con Gianluca Petrella e sono davvero felice di incontrarlo, anche se non sappiamo se questa collaborazione avrà un seguito. Appena un mese fa abbiamo suonato in Germania, a Schwäbish Hall, con la giovane e fantastica trombettista norvegese Hilde Marie Holsen. Sono eccellenti opportunità di incontrare nuovi partner che condividano i nostri gusti.

La vostra intesa musicale dura da ben diciotto anni. Su cosa si basa un accordo così fruttuoso, che ha già prodotto ben otto album su etichette di dimensioni ben diverse, dalla Feral alla Rune Grammofon e infine alla ECM?

IB: Siamo persone diverse, ci interessano cose diverse, abbiamo un diverso aspetto e una diversa età, e su queste differenze si basa la nostra stabilità: sul contrasto, non sulla somiglianza. Come in ogni conversazione interessante, quando si è in disaccordo o in opposizione bisogna trovare un equilibrio. Cerchiamo di non coprire le stesse aree, e il forte legame musicale e la vecchia e ormai consolidata amicizia ci sono sempre di aiuto. È ancora come un lungo viaggio, che ci aiuta a non ripeterci, a non bloccarci. Viaggiamo, incontriamo persone, facciamo musica nuova, sperimentiamo nuove idee…
TS: È successa una cosa un po’ strana: passando dal quartetto al duo abbiamo in effetti iniziato a provare più spesso, e anche se in quartetto suonavamo materiali più scritti non avevamo in pratica mai il tempo di incontrarci e provare a lungo. Lo facevamo quasi sempre al soundcheck, o al massimo una volta se andava di lusso. Quando ci siamo ritrovati in duo, invece, abbiamo potuto iniziare a provare in abbondanza, certe volte anche per cinque giorni di fila, e abbiamo visto che funziona. Discutiamo molto, chiusi per ore in una stanza a mettere su i brani, proviamo un’idea, la suoniamo per un paio d’ore e ne discutiamo ancora; tutto questo ci offre un sacco di opportunità, e prima di salire sul palco non abbiamo più bisogno di stabilire cosa suoneremo. Anzi, ormai non decidiamo più nulla. Io so che se Iain suona in un certo modo ho diverse opzioni su cui lavorare, e lo stesso capita a lui.

FOOD Iain Ballamy – foto Nadia F. Romanini

A quali modelli artistici vi siete ispirati all’inizio? E quali sono quelli di oggi?
IB: La mia vera influenza musicale è quella tipica di un ragazzo inglese, almeno credo, ed è la musica di chiesa, i canti di Natale, la musica classica, e ciò che passavano alla radio e in tv. Allora non avevamo cinquantamila canali tv e tremila stazioni radiofoniche come oggi, c’erano appena tre stazioni radio e tre emittenti televisive. Da giovane ascoltavo anche un po’ di folk, ma ritengo che l’influenza più importante sia ancora quella di mio padre. Chiunque suoni jazz ha quasi sempre una storia alle spalle. Per quanto mi riguarda, mio padre era un pianista jazz semi professionista che registrò molti programmi tv sul jazz. C’erano molti nastri di jazz in giro per casa, e ricordo che a volte ero a letto e cercavo di dormire mentre i miei genitori davano una festa, e sentivo suonare il contrabbasso e la batteria, e la gente che beveva, e le risate. Non è successo nulla fino ai quattordici anni, quando mi è capitato di ritrovarmi in una stanza con quattro jazzisti che provavano un brano, e qualcosa mi è scattato in testa. Non avevo mai suonato uno strumento, non avevo mai avuto alcuna esperienza del genere. Ho iniziato a quell’età e sono diventato un musicista professionista a diciott’anni, nel 1982.
TS: Io non vengo da una famiglia di musicisti, a parte mio nonno materno. Lui era un professionista della musica, ma è morto nella Seconda guerra mondiale. Sono per metà tedesco e una volta, quando avevo cinque anni, ero a Kiel in visita dai nonni. Siamo passati davanti a una vetrina e ho visto un tamburo. Credo di non avere mai chiesto nulla prima di allora, ma quel tamburo lo desideravo sul serio e ho iniziato a piangere, a supplicare per ore e ore. Così nel tardo pomeriggio mia madre mi ha portato in quel negozio e lo ha acquistato. Così a letto, la notte, al posto dell’orsacchiotto mi portavo il tamburo, e ho ancora delle foto di quando ero piccolo mentre mi lavavo i denti con il tamburo appeso al collo. Poi ho ampliato la mia batteria con oggetti da cucina, pentole, eccetera, e dopo tre anni ho iniziato a suonare nella banda della scuola, dove all’inizio mi hanno costretto a imparare altri strumenti come il flauto. Io volevo suonare il tamburo, ma a loro non serviva un percussionista. Quando sono tornato a casa, deluso, mia madre mi attendeva sulle scale per dirmi che avevano chiamato quelli della banda: avevano cambiato idea e avrei potuto suonare il tamburo. Dopo alcuni anni – ne avevo undici – ho acquistato la mia prima batteria, ho lasciato la banda e ho formato un gruppo rock con cui ho suonato per un paio d’anni. Poi un musicista venticinquenne che aiutava i gruppi rock locali mi chiese di unirmi a una sorta di big band in versione ridotta, composta da musicisti di quindici anni più grandi di me e che suonava musica più moderna. Il batterista stava per lasciare la band e mi diedero un sacco di dischi da ascoltare, soprattutto cose ECM, incisioni di jazz europeo. Così ho cominciato ad ascoltare e a suonare quel tipo di jazz. Non credo di aver mai deciso a mente fredda di fare il musicista: ho molti altri interessi, il calcio, la corsa e, ovviamente, anche la musica. Vengo da un posto molto piccolo, ho avuto la fortuna di essere uno dei pochi batteristi della zona e l’opportunità di poter crescere molto dal punto di vista musicale.


FOOD Thomas Stronen – foto Nadia F. Romanini

Quali nuovi passi vi aspettano? Sia a livello individuale sia come Food?
IB: Io sto scrivendo brani per coro ma anche musica da camera. Come Food, invece, stiamo lavorando a un nuovo disco.
TS: Io sto componendo di più, mi piace lavorare con diverse forme d’arte come il teatro, la danza, il cinema, oltre che con musicisti classici. Il nuovo disco dei Food sarà diverso da quelli che abbiamo registrato finora, ma non sappiamo ancora per quale etichetta uscirà.

Oltre alla musica, quali altri interessi coltivate?
IB: Io sono un collezionista. Colleziono vetroceramica inglese ed europea, e mi piace utilizzare il metal detector per scoprire tesori. Ho iniziato a nove anni, con mio padre. L’ultimo oggetto che ho trovato in un campo, qualche mese fa, è un’ascia dell’età del bronzo, vecchia di tremila anni.
TS: Io invece mi interesso di letteratura, mi piace leggere. Mi piace molto cucinare, fare sport, correre. E anche sciare: da tipico norvegese, pratico telemark e sci di fondo.

Vincenzo Fugaldi