Fantastic Negrito: il blues è il veicolo perfetto per trasmettere il mio messaggio

Con l'album «The Last Days Of Oakland» ha vinto il suo primo Grammy per il miglior album di blues contemporaneo del 2016. Nell'intervista ci racconta la sua vita rocambolesca e in continuo cambiamento

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Fantastic Negrito

La storia di Fantastic Negrito sembra uscita da un romanzo e, considerando che è lui il primo ad ammettere di essere un maestro nell’arte di arrangiarsi, ogni tanto verrebbe il dubbio che si tratti di una bella favola anziché di una vicenda reale. Xavier Dphrepaulezz, questo il suo vero nome, scappa di casa da ragazzino per inseguire il sogno della musica, vivendo da senzatetto per tutta la sua adolescenza. Attorno ai vent’anni il sogno si avvera, grazie a un contratto milionario con la Interscope Records fortemente caldeggiato dallo staff di Prince, ma qualcosa non funziona: Xavier non riesce ad inserirsi nei meccanismi stritolatori dell’industria discografica, e per di più poco dopo un terribile incidente pone fine a ogni speranza di carriera. Da allora passano quindici anni e il nostro eroe cambia vita, mette su famiglia e scopre le gioie della campagna (nello specifico inaugura una fattoria in cui coltiva anche marijuana, come si addice al suo personaggio), finché il richiamo della musica non si fa di nuovo troppo forte: si inventa l’alias Fantastic Negrito, si dà al blues e realizza da indipendente uno dei dischi più azzeccati, viscerali e interessanti del 2016, «The Last Days Of Oakland». All’indomani delle sue ultime date italiane, abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lui.

Il successo è arrivato solo di recente, ma la tua carriera affonda le radici molto più lontano. Quando hai cominciato a fare musica?

Ho avuto una lunga gavetta. Sono l’ottavo di quattordici figli: la necessità di farmi notare in una famiglia così numerosa mi ha reso un po’ esibizionista! Da bambino adoravo stare sul palco, ballare, cantare – ho anche vinto un paio di concorsi – ma a un certo punto ho capito che per imbastire un vero spettacolo ci voleva qualcosa di più, così ho cominciato a studiare musica da autodidatta, soprattutto la chitarra. Ho scoperto così che c’erano moltissime canzoni e melodie nella mia testa, pronte a uscire non appena avessi avuto gli strumenti per tirarle fuori. Dopo un po’ è arrivata la Interscope, tramite cui ho potuto andare in tour con Arrested Development, De La Soul, Fugees, artisti hip hop che in qualche modo mi hanno adottato e accolto come se fossi stato uno di loro. Ero molto giovane, però, e quella fase della mia carriera è finita presto.

Spesso ne parli come se fosse un capitolo del tutto separato della tua vita: come mai?

All’epoca ero considerato un pezzo grosso! Erano in tanti a credere in me: David Gilbert, che aveva convinto Joe Ruffalo (il manager di Prince) a prendermi sotto la sua ala, e il leggendario produttore Jimmy Iovine, che si assicurò personalmente che la Interscope mi mettesse sotto contratto. Però ero ancora un ragazzino: preferisco non focalizzarmi troppo su quel periodo della mia vita e cercare di fare il meglio che posso oggi. Nel mio percorso attuale cerco di elevarmi, di abbracciare la luce e la positività.

Leggenda vuole che tu te ne sia andato di casa a dodici anni: è vero?

Sì, lo è: mio padre era molto religioso e restrittivo, e fin da piccolo sapevo di voler vivere la vita a modo mio. Ovviamente è stata molto dura, ma sono sopravvissuto, e già solo questo è un successo! Non raccomanderei a nessun bambino di fare la stessa cosa, vivere per strada oggi è molto più difficile di quanto non lo fosse un tempo, ma per quanto riguarda me, sento di essere stato molto fortunato: ho incontrato persone splendide che mi hanno aiutato in ogni modo.

A proposito della tua famiglia, una curiosità: il tuo cognome all’anagrafe, Dphrepaulezz, è molto particolare. Da dove arriva?

Non ne ho idea! Provengo da una lunga stirpe di artisti e trafficoni, perciò probabilmente se lo sono inventato. Stando a quello che mi raccontavano, in origine potrebbe essere stato un cognome greco, ma magari si sono inventati pure questo. Che dire: c’è un motivo se sono sopravvissuto in strada. I miei antenati erano persone molto particolari, abilissime nell’arte di svoltare la giornata, e io ho preso tutto da loro.

A proposito di sopravvivere, dopo il tuo primo album con la Interscope – che non ti ha regalato molte soddisfazioni – sei rimasto vittima di un incidente automobilistico in cui hai rischiato la vita. Un evento che ha cambiato completamente le carte in tavola…

Già prima dell’incidente avevo preso la decisione di lasciare la musica, almeno come artista solista: mi sembrava di non avere più nulla da dire. Quando poi mi sono risvegliato dopo tre settimane di coma, ci ho messo parecchio per riacquistare la mobilità sufficiente per suonare la chitarra, ma anche dopo avercela fatta non avevo più piacere a farlo. Per sbarcare il lunario ho avuto un paio di band con le quali componevo musica per film e televisione, ma non ci mettevo l’anima, mi sentivo infelice. Ho preferito mollare tutto e mettermi a coltivare marijuana, che nel frattempo in California era diventata legale.

Cosa è successo per farti cambiare idea (di nuovo)?

È successo che ora ho di nuovo qualcosa da dire. La mia lezione è questa: non importa quanto male si metta la situazione, non importa neanche se ti arrendi e abbandoni il campo di battaglia, c’è sempre una luce in fondo al tunnel. Voglio dire agli artisti che il momento di essere creativi e di produrre è questo, perché la gente che ci governa ha fallito e ci ha deluso, e continueranno a deluderci: dobbiamo smetterla di credere alle loro parole e credere invece nell’umanità.

Che cosa significa il titolo del tuo album, «The Last Days Of Oakland»?

Oakland è il posto in cui sono cresciuto e tuttora abito lì, quindi è una realtà che conosco molto bene. Molte grandi città stanno cambiando irrimediabilmente faccia: ormai sono troppo costose per i loro abitanti, soprattutto per quelli che fanno i lavori più umili, perciò capita spesso che qualcuno debba abbandonare casa propria perché non può più permettersi di viverci. Questo, alla lunga, rischia di cancellare la vera anima delle nostre metropoli, quello che le ha rese ciò che sono: la gente arriva a Oakland o a New Orleans per la loro cultura, ma quella stessa cultura ormai è accessibile solo alle persone benestanti. È uno schifo. È stato un lavoro molto istintivo: dalla scrittura al mix finale sono passati solo tre mesi. Era tempo di mettersi in moto, per me.

È un disco improntato molto sul blues, che è sempre stato parte del tuo retaggio ma non era il tuo ambito di riferimento. Questo cambio di stile c’entra qualcosa con il messaggio di cui sopra?

Ho scoperto il blues e le mie radici nere solo di recente: è un genere che mi ha sempre accompagnato, l’ho ascoltato distrattamente per tutta la vita, ma non mi era ancora successo di entrare davvero in connessione con lui. Dopo essere cresciuto, avere fatto molte più esperienze umane e aver fallito un paio di volte, posso dire di capirlo davvero! Quel suono originario del delta del Mississipi, quella passione che ci mettevano Skip James e Robert Johnson, finalmente sono penetrati in me e ho capito di avere trovato qualcosa a cui mi sento davvero legato, il veicolo perfetto per trasmettere il mio messaggio. I nostri predecessori ci hanno lasciato un’enorme eredità artistica, che voglio onorare in questo modo.

L’album contiene anche una tua versione di In The Pines, una canzone tradizionale che prima di te avevano reinterpretato anche i Nirvana con il titolo di Where Did You Sleep Last Night

Uno dei miei fratelli è morto in seguito a una sparatoria, la violenza legata alle armi da fuoco è un enorme problema in America. Dopo la sua scomparsa ho fatto un voto alla sua memoria: ogni volta che ne avessi avuto occasione, avrei affrontato il tema nelle mie canzoni. Originariamente quel brano ha un argomento differente, ma ne ho cambiato alcuni versi e anche la tonalità per fare in modo che parlasse di una madre che seppellisce il proprio figlio. E ho cambiato anche la persona a cui è rivolta la prima strofa, da un generico “My girl” a “Black girl” – cosa che mi è venuta abbastanza spontanea pensando a mia madre che, come tante altre donne nere, ha dovuto dire addio ai propri figli a causa del proliferare delle armi.

Da temi impegnati a questioni molto più frivole: sei stato ospite di un episodio di «Empire», la serie tv ambientata nell’attuale industria della musica afro-americana. Il telefilm ha ascolti da record, ma è anche stato criticato per il suo scarso realismo. Come ti sei trovato sul set?

Non sono particolarmente interessato a fare l’attore e sicuramente non sono un granché a recitare, ma mi hanno proposto di provarci e ho accettato, perché mi sembrava un’ottima possibilità per mettere in luce la mia musica. Mi sono veramente divertito, e credo sia importante esista un intrattenimento di qualità che sia fatto da neri e si rivolga a un pubblico non esclusivamente bianco. Riguardo alle critiche, è vero, senz’altro in alcuni aspetti non è realistico, ma vi posso garantire che alcune ricostruzioni, anche quelle che sembrano più esagerate, sono molto accurate!

Per concludere: ora che finalmente sembri avere trovato la tua strada, possiamo dire che sei tornato per sempre o potresti riservarci altre uscite di scena a sorpresa?

Onestamente, se mi accorgessi di non avere di nuovo più niente da dire, smetterei. Ho troppo rispetto per la musica, e voglio farla solo quando si tratta di un’esigenza pura e non di un tornaconto commerciale.

Marta ‘Blumi’ Tripodi