Fano Jazz by the Sea, seconda parte

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Fano Jazz by the Sea 2019
Il logo di Fano Jazz all'interno della Rocca Malatestiana,(foto di Erika Belfiore)

Fano, Pinacoteca di San Domenico e Jazz Village, 22-27 luglio

Per il quarto anno consecutivo Fano Jazz by the Sea ha inserito nella propria programmazione Exodus, Echi della migrazione, serie di performance solistiche ambientate nella Pinacoteca di San Domenico, una chiesa sconsacrata che al solista di turno pone sempre il problema di confrontarsi con l’acustica, lo spazio e i volumi. Com’è facilmente intuibile, il ciclo di concerti è incentrato sul tema, quanto mai attuale, della migrazione. Tant’è che sull’argomento anche i musicisti coinvolti nell’iniziativa hanno – chi per un motivo, chi per un altro – storie da raccontare e progetti da proporre.

Benché molti fingano di essersene scordati, gli italiani sono un popolo di emigranti. Questo pareva suggerire l’esibizione del fisarmonicista Luciano Biondini, costituita da sagaci rielaborazioni di melodie italiane che scavavano nella nostra storia recente. Può sembrare scontato o addirittura banale lavorare sull’impianto armonico e sul tema di canzoni italiane (e a volte lo è davvero). Non nel caso di Biondini, autore di parafrasi efficaci, ritmicamente vitali e perfino swinganti di temi fissati nella nostra memoria collettiva: Che cosa c’è? e Senza fine di Gino Paoli, La lontananza di Domenico Modugno. Melodie prima nascoste o accennate, poi rivelate, provenienti un decennio – gli anni Sessanta – in cui lo sviluppo economico del nostro paese trasse giovamento da una massiccia migrazione interna dalle regioni del Sud. Un viaggio nella memoria completato attraverso citazioni cinematografiche: da Fiorenzo Carpi (Pinocchio), Ennio Morricone (Deborah’s Theme da C’era una volta in America e Nuovo Cinema Paradiso) e Luis Bacalov (Il postino). Nel suo approccio Biondini convoglia il retroterra popolare dello strumento e l’influenza di grandi specialisti francesi di accordeon come Marcel Azzola e Richard Galliano.

Fano Jazz by the Sea - Luciano Biondini
Luciano Biondini

Storico collaboratore di Antonio Carlos Jobim, Gal Costa e Caetano Veloso, il violoncellista Jaques Morelenbaum è figlio dell’emigrazione ebraica dall’Europa dell’Est verso il Sudamerica (i genitori erano arrivati in Brasile da Polonia e Russia). Nell’improvvisazione offerta in apertura si coglie infatti un portato europeo in cui affiorano l’eredità dei grandi compositori russi, echi espressionisti, la lezione di Pablo Casals, il retroterra ebraico in certi dolenti risvolti. La nitidezza nel suono e nell’esposizione, le arcate nette e possenti, il plastico senso della forma modellano poi pagine del patrimonio brasiliano. Frutto dell’incontro tra melodie portoghesi, influenze dell’opera italiana e ritmi sincopati di origine africana, Modinha è una forma che vanta declinazioni sia popolari che alte e questo lo si riscontra tanto nella scrittura di Villa Lobos quanto nella versione di Jobim. Del repertorio di quest’ultimo Morelenbaum fornisce interpretazioni delicate, finemente cesellate di Insensatez e Retrato em branco e preto, che nella versione originale era intitolata Zingaro. La componente afrobrasiliana è ben presente in Eu vim da Bahia di Gilberto Gil, affermazione identitaria riferita a un’area fortemente contrassegnata dalla cultura africana. Secondo una sintesi tra musica popolare e accademica portata ai massimi livelli da Villa Lobos, Agua e vinho mette in luce la sfaccettata identità del compositore Egberto Gismonti, figlio di un’italiana e di un libanese.

Fano Jazz by the Sea - Jaques Morelenbaum
Jaques Morelenbaum (foto di Roberto Cifarelli)

Resist/Evolve è un esperimento messo a punto negli ultimi quattro anni dal sassofonista Dan Kinzelman: una sfida con se stesso e i propri limiti alla ricerca di un equilibrio interiore, in una reale interazione con lo spazio e le sue risorse acustiche. Mezz’ora di respirazione circolare ininterrotta, esplorando le possibilità del tenore. Kinzelman procede per lento accumulo di nuclei in progressiva espansione attraverso cambi di registro, analisi degli armonici, un soffiato paragonabile a un afflato vitale. I timbri increspati che ne scaturiscono salgono gradualmente dai registri grave e medio fino a quello acuto con variazioni quasi impercettibili. In questo contesto il movimento riveste un ruolo essenziale, mediante lentissimi spostamenti, oscillazioni e roteazioni, e grazie alla costante ricerca di una dialettica con lo spazio circostante e i volumi architettonici. L’esplorazione sonora si avventura in territori non distanti da quelli battuti in passato da Roscoe Mitchell e Anthony Braxton, senza per questo sposarne la poetica radicale. Nel procedimento meticoloso applicato da Kinzelman si possono magari ravvisare anche tracce del minimalismo di Steve Reich e Philip Glass. Va da sé che una prova del genere richiede la massima concentrazione e un notevole dispendio di energie.

Dan Kinzelman
Dan Kinzelman

Proveniente da una famiglia di origini sefardite (in parte turche, in parte yemenite), il contrabbassista israeliano Adam Ben Ezra ha fornito uno spettacolare esempio di musicalità e polistrumentismo mai fine a se stesso. Come virtuoso dello strumento e anche sotto il profilo contenutistico, per molti versi Ben Ezra si dimostra degno continuatore dell’opera dei colleghi e connazionali Avishai Cohen e Omer Avital. Ben Ezra sfrutta ed esplora non convenzionalmente le risorse del contrabbasso, alternando un pizzicato asciutto (con timbriche a tratti apparentabili a quelle di un oud), secchi slap di gusto quasi flamenco e tocchi percussivi sulla cassa armonica. Inoltre, utilizza campionamenti per costruire basi e loop su cui sovrapporsi e improvvisare sempre con grande senso melodico e impeccabile unità formale. Infine, non di rado abbina a certi passaggi vocalizzi e melismi. Al piano esprime un lirismo un po’ calligrafico, con un portato melodico e un impianto armonico che scavano nei meandri del proprio retroterra, alla maniera di Tigran Hamasyan. Fluente anche al flauto traverso, al clarinetto esibisce una pronuncia melismatica, ricca di sfumature, alla stregua di un cantore di sinagoga o di un muezzin. Non a caso, il pezzo interpretato si intitola Tefillah (preghiera in ebraico) e costituisce un ideale percorso nel Medio Oriente. Dunque, Ben Ezra dimostra come si possa (e debba) applicare il linguaggio dell’improvvisazione jazzistica al proprio bagaglio culturale.

Fano Jazz by the Sea - Adam Ben Ezra
Adam Ben Ezra

Nata a Ginevra nel 1992 da madre svizzera e padre argentino, la sassofonista Maria Grand si sta affermando da qualche anno sulla scena newyorkese, al punto da aver riscosso già lusinghieri apprezzamenti di colleghi illustri, fra i quali Vijay Iyer. A San Domenico ha impostato la propria performance come una sorta di preghiera, un happening spirituale in cui – seguendo la disposizione dei punti cardinali – introduceva brevi interventi al tenore preceduti da colpi di gong, per poi sviluppare percorsi più articolati. In tali frangenti esibiva un fraseggio logicamente concatenato con senso dell’economia e una pronuncia nitida sostenuta da un efficace uso del legato, anche in una versione di God Bless The Child. L’operazione in sé e per sé mostrava delle affinità, anche per quanto riguarda l’interazione con lo spazio, con analoghe iniziative intraprese dal nostro Dimitri Grechi Espinoza.

Maria Grand, Linda May Han Oh  e Savannah Harris
Maria Grand, Linda May Han Oh e Savannah Harris (foto di Erika Belfiore)

Tuttavia, Maria Grand ha offerto il meglio di sé poco dopo al Jazz Village, in trio con Linda May Han Oh al contrabbasso e Savannah Harris alla batteria. Qui si è potuto apprezzare una concezione avanzata, basata su temi essenziali, dalla configurazione geometrica a tratti influenzata da Ornette Coleman, e su un grande senso della misura negli sviluppi improvvisativi. In composizioni spesso caratterizzate da tempi pluricomposti e cambi metrici le caratteristiche precedentemente citate – nitidezza del suono, concatenazione logica e misura del fraseggio, efficacia del legato – trovano una piena valorizzazione anche nei passaggi più complessi e frammentati (che riecheggiano vagamente la poetica del trio Air) grazie all’abilità di Savannah Harris nello scomporre e frazionare il metro e calibrare le dinamiche. Linda Oh sostiene tutto l’impianto con linee plastiche, fluide e frasi scolpite con suono sontuoso, saldando idealmente in un unico linguaggio la triplice eredità di Scott La Faro, Gary Peacock e Dave Holland, ma aggiungendovi connotati più «neri». Una piacevolissima sorpresa che, al pari dei concerti inseriti nella rassegna Exodus, Echi della migrazione, ha rappresentato un valore aggiunto per l’intero festival, finendo spesso per offrire i risultati più apprezzabili sul piano strettamente qualitativo.

Enzo Boddi

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