Fabrizio Poggi: il bluesman che ha conquistato l’America

Come un italiano ha prima scoperto il blues e poi conquistato l'America sia come solista, sia con i Chicken Mambo, il bluesman Fabrizio Poggi è figura assai nota sulla scena italiana. Ma anche all’estero: e proprio delle sue avventure negli Stati Uniti parla il nuovo «Texas Blues Voices»

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Fabrizio Poggi
Fabrizio Poggi - foto Mario Rota

Andrew Vachss, lo scrittore di Oltraggio e L’uomo in fuga, dichiara di aver sempre ascoltato tanta musica. Ma confessa, che, almeno all’inizio, il blues non lo digeriva più di tanto. Poi un giorno, a Chicago, sentì suonare dal vivo Son Seals e da allora non riesce più a farne a meno. A te, invece, com’è andata? Com’è nato il tuo amore per il blues?
Sinceramente non lo so. Sarebbe più facile dire che il blues ha scelto me e che poi tutto è venuto di conseguenza. Il blues non è solo musica ma un vero e proprio miracolo. Tocca ogni cuore, senza pensare al colore della pelle e alla lingua che parli. Sai che cosa c’è scritto, in Mississippi, in un vecchio negozio di dischi? Chi non ama il blues ha un buco nell’anima. Il blues, per come la vedo io, è un dono meraviglioso che gli afro-americani ci hanno voluto regalare per pulirci l’anima.

Di solito, da ragazzini, quando si comincia a suonare, tutti pensano di diventare dei chitarristi. Tu, invece, hai scelto l’armonica, il «violino dei poveri».
A dire il vero è stata l’armonica a scegliere me. Un po’ come il blues. E sai quand’è successo? Parecchio tempo fa, alla fine degli anni Settanta, guardando al cinema The Last Waltz, il film di Scorsese sull’addio della Band alle scene. Fu allora che venni folgorato dal carisma di Muddy Waters e dall’incredibile suono dell’armonica di Paul Butterfield. Non avevo mai sentito nessuno suonare così. In quegli stessi giorni iniziai a rendermi conto che il blues era ormai la mia musica. Quella che rappresentava i miei sentimenti e, soprattutto, la mia rabbia di operaio sfruttato. Non potevo certo pensare che un giorno avrei incontrato Levon Helm, Garth Hudson e Mavis Staples, alcuni degli artisti presenti in quel film di Scorsese.

E per suonare l’armonica a chi ti sei ispirato?
Davvero a tanta gente. A Noah Lewis come anche a Jazz Gillum, Sonny Terry, James Cotton, i due Sonny Boy Williamson, Paul Butterfield, Mississippi John Hurt, Muddy Waters, Son House, ma anche ad alcuni grandi bluesmen che hanno avuto la sfortuna di registrare poco e il cui nome, adesso, s’è perso nella nebbia del tempo. Con Charlie Musselwhite ho poi un rapporto speciale. M’è sempre stato vicino, soprattutto quando lottavo contro la depressione. Charlie non è solo un grande musicista ma anche una grande persona.

Fabrizio Poggi foto di JohnBull
Fabrizio Poggi foto di John Bull

Col tempo, il blues ti ha portato anche in America, a farti vedere i posti in cui è nato.
Già, e ogni pellegrinaggio nei luoghi sacri del blues m’ha segnato dentro. Se sei una persona con la mente aperta e sensibile alle cose che ti circondano e ti capita di passare per il Mississippi, vedrai allora che il blues ti cambierà per sempre. Da quelle parti, la musica viene fuori dalla terra e dalla polvere delle strade. Il blues è negli alberi, nell’erba, nel modo in cui la gente cammina e parla, in ciò che si mangia, nell’aria che si respira… Lì ho incontrato dei vecchi bluesmen che oggi non ci sono più, ma che m’hanno raccontato un sacco di storie che mi hanno cambiato per sempre. In quei posti, ho avuto anche il privilegio di suonare in alcuni locali dove il blues è nato.

In America ci sei tornato spesso. Non solo per suonare in giro, ma anche per incidere. Quella terra, alla fine,  tu e la tua armonica l’avete conquistata. Mica male,  per uno nato alla periferia dell’Impero.
Sono stato il primo italiano e spero d’avere aperto la strada a tutti quei musicisti, italiani o europei, che verranno dopo di me. A volte, sono sempre stato il primo, o almeno tra i primi, a fare certe cose. Come incidere dischi in USA, fare da quelle parti dei veri e propri tour, con la mia band e con musicisti americani, e poi registrare con alcune leggende del blues e del rock… Questo, insomma, è quello che ho fatto in questi ultimi 35 anni, vivendo on the road.

Ottenendo così anche il tuo passaporto da bluesman
E per ottenerlo non ci sono stati trucchi, segreti o scorciatoie. Basta essere se stessi e poi lavorare sodo. Con passione, onestà e determinazione. Tutto ciò che ho ottenuto è arrivato grazie alla mia armonica e suonando ogni sera come fosse l’ultima. Con tanti sacrifici, lacrime e sangue.

Sam Greenlee, l’autore del Negro seduto accanto alla porta, ha scritto che un uomo potrebbe anche diventare un filosofo a furia d’ascoltare il blues.
Conosco Greenlee. Quel suo romanzo è uscito alla fine degli anni Sessanta ma è ancora attuale. Comunque, per come è nato e per tutta la sua storia, il blues ti può far davvero  diventare un filosofo. E sai perché? Perché il blues è già una filosofia di vita. Non è una musica come le altre. Ha una sua etica e un suo codice d’onore. È una musica nata per guarire il mondo da tutte le sue sofferenze e, per questo, merita un particolare rispetto. Non solo da chi l’ascolta, ma anche e soprattutto da chi la suona.

Fabrizio Poggi
Numerosi gli ospiti illustri dell’album di Fabrizio Poggi che celebra le grandi voci del blues taxano

Dopo tanti anni vissuti on the road, suonando e ascoltando blues, come ci si arriva a un gran bel lavoro come «Texas Blues Voices»? Un disco non solo bello da ascoltare, ma anche da tenere in mano e da sfogliare, come un tempo si faceva col vinile. Di chi è stata l’idea?
L’idea è stata mia. Era da tempo che desideravo celebrare le grandi voci del blues texano. Il Texas ha dato tanto al blues (qualcuno dice che addirittura sia nato lì) con musicisti che ormai sono entrati nella leggenda. Come Lightnin’ Hopkins, Blind Lemon Jefferson, T-Bone Walker, Freddie King, Johnny Winter e Stevie Ray Vaughan. Comunque, il libretto allegato al disco (ma c’è pure un video, che vi consiglio di guardare) è stato realizzato da Davide Miglio e Juri Meneghin, che mi hanno seguito in Texas durante tutto il progetto.

L’album, pieno di ospiti famosi (Carolyn Wonderland, W.C. Clark, Mike Zito, Ruthie Foster, Lavelle White), è davvero riuscito. Ascoltandolo, si sente subito che è stato suonato e cantato pensando e volendo bene all’ascoltatore. In poche parole, è un vero e proprio atto d’amore verso chi ascolta.
Un disco è sempre un atto d’amore. Senza amore niente è possibile. Una canzone, a volte, può anche cambiare la vita di una persona e di questo bisogna sempre tenere conto.

La scelta dei brani a chi è spettata?
A me, e la genesi di ogni canzone la racconto nel libretto allegato. Pagine che consiglio di leggere, per apprezzare ancora di più ogni traccia. E già che ci sono, permettimi di ringraziare la Appaloosa Records e Angelina, la mia compagna, per aver creduto fin dall’inizio in questo progetto.

Ma a forza di ascoltare e riascoltare «Texas Blues Voices» qualcosa ancora mi sfugge. Non riesco a capire se sia un omaggio dell’America e del blues a te e alla tua armonica oppure il contrario.
È giusto che ti sfugga qualcosa. Fa parte del fascino del blues. Quando pensi di averlo compreso appieno, sei solo all’inizio del viaggio. Un viaggio che, una volta intrapreso, ti costringe ad andare avanti per sempre. Com’è capitato a Vachss. Comunque, questo disco è di sicuro un mio omaggio all’America. Un Paese non perfetto, ma dove però ho visto migliaia di persone in piedi, sotto un diluvio universale, ascoltare il blues che usciva solo da una chitarra acustica e un’armonica.

Avremo la fortuna di vederti in giro per l’Italia?
Lo dico con tristezza ma non è facile suonare il blues qui da noi perché, spesso, lo si vede solo come puro intrattenimento. Certo non aiuta il fatto che da anni, in Italia, girino attorno al blues sedicenti bluesmen, anche famosi, o personaggi che del blues non hanno capito nulla e che al blues fanno più male che bene, facendoci scordare che il blues è cultura. Anzi, Cultura con la C maiuscola. Intanto gli anni passano e, per un migrante della musica come me, è sempre più difficile andare avanti, costretto come sono a suonare all’estero per raccogliere qualche briciola di gratificazione che troppo spesso, invece, mi viene negata qui dove sono nato. Non è facile, insomma, ma sono felice lo stesso perché, col mio blues, sono riuscito  a toccare il cuore di tante persone da questa e dell’altra parte dell’Atlantico. E intanto, per quanto riguarda i miei concerti, seguitemi pure in rete. Magari, prima o poi, passo a suonare anche dalle vostre parti. Sarebbe una bella occasione per farvi vedere l’armonica che ho tatuata sul cuore. Vi aspetto.

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