Eric Dolphy: Suono tutte le note che voglio e sento

Eric Dolphy in due testi, rimasti inediti in Italia fino all'anno scorso, una del 1960 di Martin Williams tratto da «The Jazz Review», l'altro in data sconosciuta - forse del 1964- di Leonard Feather

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Eric Dolphy
Eric Dolphy a Copenhagen, 1961.

Eric Dolphy, vorrei mettere subito in chiaro che in ciò che stai facendo ci sono alcune cose che non riesco a capire. E se riesco a capirle io, magari posso aiutare il lettore medio a capire a sua volta. Cosa succede nella tua musica? Che cosa state combinando, tu e i tuoi colleghi, dal punto di vista armonico? È molto difficile da spiegare, molto difficile da analizzare. Riesci a esprimerlo a parole?
Be’, vedi, dipende sempre dal materiale su cui stai improvvisando, ovvio. Certo, se suoni su forme più libere e l’armonia è più libera, l’improvvisazione è più libera a sua volta e hai a disposizione molto più materiale su cui suonare. Armonicamente, le linee melodiche non sono legate a griglie di accordi.

Va bene, ma quel che non capisco è a cosa siano legate. Insomma, qual è la differenza tra un limite e l’altro? Qualche limite deve per forza esserci, altrimenti sarebbe tutto arbitrario, potresti suonare qualunque nota.
Infatti l’idea è proprio quella di poter suonare tutte le note che vuoi. Naturalmente puoi suonare solo ciò che senti, ed è ovvio che ciò che sento io non è lo stesso che senti tu. Insomma, per me è naturale sentire più note nella situazione di cui si parlava prima.

Allora, se non ti appoggi a una sequenza di accordi, che è sempre stata la base tradizionale del jazz, a cosa ti appoggi?
Capita di suonare certe cose che non sono basate su accordi ma sulla libertà d’espressione, insomma parti con una linea melodica e continui a inventare man mano che vai avanti, e continui ancora finché non hai espresso quel che vuoi dire. È un fatto di intuizione, di contesto, di cosa hai attorno o di chi hai attorno. Poi, certo, ci sono anche i modi, e se tu suoni all’interno di un modo puoi anche suonare al di fuori di esso, uscirvi e rientrarvi in base a ciò che stai suonando. Quindi, dal punto di vista armonico, non siamo più legati alla vecchia concezione dell’andare su e giù sull’accordo di settima. Certo, lo fai ancora, ma puoi usare altre note dell’accordo per dare una diversa espressività al brano. Altrimenti suonersti quel che suonano già tutti. Quindi, se ho un accordo di Fa settima, probabilmente ci suonerò sopra un Fa diesis! Vale a dire una nona abbassata. Posso andare sull’accordo di Fa diesis. E non per il semplice gusto di farlo. Se lo faccio, è perché alle mie orecchie il Fa diesis in questo caso ci sta bene. Non so se mi spiego. È difficile dirlo così, mentre siamo seduti a parlare, perché nell’improvvisazione le cose capitano quando le fai. E, come sempre, possono cambiare.

In questo modo, secondo te, c’è una una maggiore libertà di quella che si può avere nelle precedenti forme di jazz. Credi quindi che, in questi termini, Charlie Parker o Dizzy, o quelli che sono venuti prima di loro, non abbiano libertà oppure possano suonare antiquati in conseguenza dei recenti sviluppi?
No, è buffa questa cosa, sono contento che me lo chiedi. Mi spingo oltre. Ho suonato a un festival a Washington, D.C. e mi è capitata l’opportunità di ascoltare la Eureka Jazz Band. Quando la senti suonare, senti la band, certo, ma senti soprattutto la prima tromba che espone la melodia. Gli altri suoni, insomma, sono a un livello inferiore, non li cogli così distintamente. Insomma, mi è capitato di ritrovarmi proprio in mezzo a loro, una volta che suonavano da fermi, e…

Quei vecchietti di New Orleans?
Sì. E, nel sentirli, mi sono accorto che non c’era tanta differenza tra quel che facevano loro e ciò che faccio io. Certo, erano più legati alla tonalità ma in quel che suonavano erano parecchio liberi, perché usavano degli accordi, diciamo così, un po’ fluttuanti, non dei begli accordi solidi di Sol o di Do senza note estranee. Loro ci suonavano sopra dei Fa diesis e dei Do diesis, va bene che erano note di passaggio ma stavano comunque improvvisando. Insomma, li vedo come i primi musicisti liberi. Per come la penso io, una maggiore conoscenza, via via che la musica va avanti, ha portato i musicisti a suonare nella maniera che ti ho spiegato, a servirsi di forme diverse. Di modo tale che hai più cose da suonare. Ovviamente, un musicista che viene fuori adesso ha una maggiore educazione. Non dico che sia più bravo, molto più bravo, dico solo che conosce molte più cose, è più attrezzato, ha una maggiore tecnica: solo che non sa cosa farsene. Nel mio caso, ho dovuto inventarmi qualcosa da fare. Non certo nel senso di trovare qualcosa che mettesse in mostra la mia tecnica e basta, ma che potesse aumentare la qualità della musica e avesse una logica. Così ho scoperto che nel mio modo di suonare avevo a disposizione delle note che all’inizio non riuscivo a sentire, e quindi non potevo suonare. Ma col passar del tempo sento sempre più note che posso suonare sopra i giri di accordi più comuni. E secondo un sacco di gente sono note sbagliate. Cosa posso dire? Hanno ragione e torto allo stesso tempo. Per come le sento io, sono giuste. Per quanto mi riguarda, credo di aver ragione, e…

Pensi che sia solo un fatto di abitudine per chi ascolta? Che prima o poi ci arriverà?
Sì, anche perché tutto questo allarga moltissimo il mio spazio, ho molte più cose da suonare, mi si aprono prospettive completamente diverse riguardo alle note che sento. Si tratta di cose che già sapevo da tempo, le conoscevo benissimo ma non potevo metterle in pratica perché non le sentivo, e non è che uno può salire sul palco e dire: «Be’, adesso suono tutto quel che mi passa per la testa». Non riuscivo a dare un senso musicale a questa situazione, tirare fuori una linea melodica da ciò che sentivo. Insomma, è andata così. Il ritmo, le altezze, il tempo, lo spazio, tutto questo finisce dentro l’improvvisazione, quando improvvisi devi tenerne conto. Non si tratta certo di macinare note a caso, come invece sostiene certa gente. Chi suona così ha qualcosa intesta, altro che.

Cosa mi dici delle osservazioni che sono state mosse a Coltrane dal punto di vista armonico? Ovvero che il fatto di suonare per 25 minuti su due soli accordi farebbe regredire il jazz per quanto riguarda l’evoluzione dell’armonia?
Guarda, non sono certamente  in grado di parlare a nome di Coltrane ma posso dirti la mia opinione. A forza di ascoltarlo – e di lavorare con lui – ho capito che John suona così tanto perché ha un’enorme riserva di idee, non certo trucchetti. Lui non mi ha mai detto niente su quest’argomento, sono stato io a rendermi conto che non si tratta di una questione meccanica ma di semplice ispirazione. È l’impulso del momento che lo spinge ad andare avanti. Ho notato questo atteggiamento anche in altri musicisti.

Credi che quanto Coltrane ha da dire su un numero limitato di accordi sia sufficiente a compensare la sua scarsa varietà armonica?
Scusa, fammi capire. Cioè potrebbe dire le stesse cose in meno tempo?

No, solo che dice le stesse cose su una quantità ridotta di accordi. Spesso e volentieri i suoi brani sono costruiti su due o tre accordi, ed è una procedura monotona se la confrontiamo con la complessità armonica, che so, di un Duke Ellington o anche di un brano come All The Things You Are. In altre parole, Coltrane non si aggrappa agli accordi.
Capisco. Be’, guarda che anche il suonare su uno o due soli accordi è una faccenda complicata di per sé. Insomma, è…

…Una sfida?
Certo, per un musicista creativo lo è. Inventarsi qualcosa su un materiale di partenza così limitato… Coltrane lavora su poco, è da quel poco che tira fuori le sue cose. E tutto questo gli dà automaticamente più tempo per pensare, la possibilità di esplorare più a fondo. Insomma, senza parlare tanto di Coltrane quanto di musica in generale, in India sono in grado di suonare venti minuti su una sola scala. Ecco, io ho parlato con Ravi Shankar, e gente come lui studia un sacco per avere del materiale su cui lavorare. Non è per dire che certi musicisti, qui, si comportino nello stesso modo per tenere testa ai musicisti indiani, però io un legame ce lo vedo, perché la musica indiana è musica popolare e anche il jazz è musica popolare americana, soprattutto dei neri americani, e quindi le modalità di espressione non mi sembrano diverse. E questo legame non c’è solo tra il jazz e la musica indiana. Per esempio, guarda Bartók e Kodály che raccoglievano tutti quei temi popolari del loro Paese., Ho sentito qualche loro disco, dove suonano certe cose che vanno avanti senza sosta, e se uno non presta una particolare attenzione alle note, il tutto rischia di diventare monotono. Se però ascolti con attenzione non soltanto le note ma anche l’atto creativo e il rapporto che si sviluppa tra i musicisti,  ti accorgi subito che sta succedendo qualcosa. Insomma, per concludere,  sono convinto che, in un certo qual modo, tutte queste cose hanno un legame  con ciò che i musicisti fanno qui e altrove. Il percorso che compiono i musicisti è pressoché lo stesso dappertutto. E sono anche convinto che da tutto questo nascerà qualcosa di nuovo. La musica deve andare avanti.

Leonard Feather

eric dolphy
Bologna, Italy – 1964/04/24 – Palazzo dello Sport – VI° Festival Internazionale del Jazz – Eric Dolphy bc, Charles Mingus b, Clifford Jordan ts – Foto © Riccardo Schwamenthal / CTSimages.com – Phocus

                          

Eric Dolphy ha iniziato lo studio del clarinetto a otto anni e del sassofono a quindici. Il primo jazzista che ricorda di aver sentito è Fats Waller, e ha poi avuto un’autentica rivelazione quando ha cominciato ad ascoltare Duke Ellington e Coleman Hawkins. «Ma cos’è questa roba? mi chiedevo davanti alla loro musica. Morivo dalla voglia di sapere come facessero». Poi si mise ad ascoltare tutto ciò che gli capitava, oltre a Ellington e Hawkins: Benny Carter, Benny Goodman, l’orchestra di Count Basie. Infine arrivò Charlie Parker. «Ero compagno di scuola di Hampton Hawes, e fu lui il primo a parlarmi di Bird. All’inizio non gli volevo credere. Mi sembrava impossibile che qualcuno potesse suonare più veloce di Hawkins». Il suo primo ingaggio da professionista fu per una serata danzante. Al contrabbasso c’era Charles Mingus. «Eric Dolphy suonava già come adesso» precisa Mingus «Ma dalle nostre parti lo facevano in molti, compreso Buddy Collette. Suonavamo così già con Lloyd Reese». Uno dei personaggi più significativi per i giovani musicisti di Los Angeles è il trombettista – bandleader Gerald Wilson. «Gerald è molto incoraggiante e servizievole nei confronti dei giovani» dice Eric Dolphy «che le cose gli vadano bene oppure no. Si tratta di un aspetto importante, perché altrimenti molti musicisti non avrebbero nulla cui aspirare né la speranza di potersi aprire una strada nella professione. Io ho inciso un arrangiamento scritto da Gerald diciott’anni fa – ancora non è stato pubblicato – e suona ancora alla grande. Gerald era già “moderno” quando io ero un ragazzino. C’è anche altra gente che dovrei ringraziare, ma se nomino Chico Hamilton, Harold Land, Buddy Collette, Walter Benton, Lester Robinson, Ernest Crawford è soltanto l’inizio. Nel mio stile, cerco di incorporare tutto quel che sento, ovvero delle varianti sulla struttura armonica di base, e cerco di utilizzarle. E tento di far parlare il mio strumento, più o meno. Ho imparato l’armonia a scuola ma anche da Lloyd Reese: è stato lui a insegnarmi ad ascoltare, ad aprire le orecchie. Ornette Coleman? Nel 1954 Ornette suonava già come oggi. Dapprima ne sentii parlare, e quando lo ascoltai suonare fu lui a chiedermi se mi piacessero i suoi brani. Mi sembra che funzionino, risposi. Ornette mi disse che, quando ascoltava un accordo, immediatamente ne udiva un altro sovrapposto. Capii subito di cosa stava parlando perché anch’io a quei tempi rimuginavo sullo stesso problema. Vedo il mio stile come tonale. Suono certe note che, di solito, non verrebbero considerate giuste all’interno di una specifica tonalità, ma per me lo sono. Non credo di “uscire dagli accordi”, come dice l’espressione comune: ogni nota che suono ha un certo riferimento agli accordi del brano. Sono felicissimo di appartenere al mondo della musica. Riuscire a guadagnarsi da vivere suonando è una sensazione fantastica, perché non ho mai desiderato fare altro».

Martin Williams