Enrico Pieranunzi: una settimana al Village Vanguard

Sin dal 1992 il pianista romano mantenne con Paul Motian un rapporto di sincera amicizia e intensa frequentazione musicale. Queste le tappe

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Enrico Pieranunzi

Enrico Pieranunzi raccontarci la storia del tuo incontro con Paul Motian?
Il primo incontro avvenne nel 1992 a Roccella Jonica e fruttò il disco «Flux and Change», oggi ripubblicato da CAM all’interno del box dei miei dischi editi da Soul Note. Fu un concerto meraviglioso, anche perché Paul non volle provare e, quindi, facemmo tutto all’impronta. Prendemmo un caffè e salimmo direttamente sul palco. Questo aspetto negli ultimi anni caratterizzò Paul in maniera netta e, alla fine, tocca dire che aveva ragione lui, perché la sua musicalità era tale da non farne sentire il bisogno. Era andata così: quando avevo incontrato Paolo Damiani, all’epoca direttore artistico del festival calabrese, lui mi aveva chiesto: «Cosa ti piacerebbe fare a Roccella?». «Suonare in duo con Paul Motian». «Si può fare». Qualche mese dopo, Damiani mi disse che aveva organizzato qualche data di Paul in Europa, così da farlo venire anche a Roccella.

Enrico Pieranunzi
Il primo incontro in trio tra Pieranunzi e Paul Motian (al contrabbasso c’era, come accadrà spesso da lì in avanti, Marc Johnson) ebbe luogo nel 1994 per IDA

Nacque allora questo rapporto importante, tanto che nel 1994 feci un tour europeo con lui e Marc Johnson e incidemmo l’album «Untold Story» in Francia per IDA, in seguito ripubblicato da Egea. Il nostro è stato un rapporto forte, proseguito nel 1996 con «The Night Gone By», sempre con Marc Johnson, per la giapponese Alfa Jazz. Negli anni Duemila io e Paul tornammo a frequentarci perché lo chiamai per incidere, con Chris Potter, Charlie Haden, Kenny Wheeler, «Fellinijazz», sempre per CAM; e contestualmente registrammo un disco cui sono molto legato, «Special Encounter». Un dialogo tra pianoforte e batteria.

Era la tua prima volta? Se non ci fosse stato Motian, ti saresti cimentato in questa avventura?
Sì, era la mia prima volta e volevo farlo solo con lui. Quel che mi aveva intrigato, a parte il trio con Bill Evans e Scott La Faro, era soprattutto il suo trio senza basso con Joe Lovano e Bill Frisell. Il suono di quel trio lo ha inventato lui: apertissimo, pieno di spazi, assolutamente incredibile. Avevo avuto un’esperienza breve e involontaria con Roberto Gatto, quando ci capitò di suonare in duo per qualche minuto, ma solo perché il contrabbassista era in ritardo! Comunque, solo Paul Motian poteva farlo in maniera così originale.

Enrico PieranunziParliamo di «Special Encounter», dove c’è anche Charlie Haden?
In verità la storia con Haden inizia prima di quella con Motian, perché nel 1987 mi chiamò Giovanni Bonandrini per dirmi che Charlie Haden voleva registrare con Chet Baker. Bonandrini sapeva che conoscevo Chet e avevo già inciso con lui. Haden era a Roma con Billy Higgins (avevano un day off del tour con Ornette Coleman e Don Cherry) e Bonandrini riuscì a mettere insieme il quartetto: io, Chet, Haden e Higgins. Il disco si chiama «Silence» (Soul Note) e anche questo è oggi nel box. Charlie era un grande barzellettiere e un vero simpaticone! Ho voluto anche dedicargli un mio brano: Haden. Quando incise Nuovo cinema paradiso per l’album «Beyond Missouri Sky» con Pat Metheny, Charlie mi chiamò a casa – sono io il pianista sul brano originale di Ennio Morricone – per chiedermi la parte del contrabbasso: così telefonai a Morricone, che mi inviò lo spartito via fax, e lo girai a Haden. Tornando a «Special Encounter», proprio in occasione del disco per celebrare il decennale della morte di Federico Fellini, mi venne in mente di fare un disco in trio con Charlie e Paul. Entrambi erano dei personaggi incredibili, che raccontavano sempre belle storie. Mi dissero del loro incontro con Keith Jarrett: la prima volta che lo ascoltarono fu in un club a New York, dove Jarrett non si avvicinò mai al pianoforte e suonò solo il sax soprano. Al termine del concerto, Jarrett invitò Motian e Haden a casa sua per suonare qualcosa assieme; loro si aspettavano che tirasse fuori il sassofono, mentre lui si accomodò al pianoforte. E quindi capirono che strumento suonasse davvero… Comunque, per me aver inciso un disco con loro è stata un’esperienza inenarrabile: per il suono, per la creatività, per tutto.

Enrico Pieranunzi & Chet Baker a Roma, dicembre 1979 - foto Massimo Perelli
Enrico Pieranunzi & Chet Baker a Roma, dicembre 1979 – foto Massimo Perelli

L’incontro e la collaborazione con Motian hanno cambiato qualcosa nella tua prospettiva musicale?
Sì, tantissimo. Intanto proprio l’atteggiamento di guardare sempre avanti e la capacità di gestire lo spazio musicale, che va oltre l’essere batterista. Io lo definivo un compositore alla batteria. Una testa da compositore, da pittore, dove la batteria era il mezzo e non il fine. La capacità di cercare e trovare contrasti che nessun altro sarebbe stato capace di scovare. I batteristi non lo amano tanto perché è stato un’anomalia: Paul era anti-spettacolare, anche se aveva uno swing della madonna. Ha allargato le possibilità della batteria grazie a una concezione aperta. È partito dalla tradizione e con Jarrett ha iniziato a sperimentare. Era originale. Aveva una personalità spigolosa, perché suonava solo ciò che voleva lui, ma era molto diretto. È stato un grande talent scout: Frisell, Lovano, Potter, Rosenwinkel sono sue scoperte. Mi ricordo quando, nel 2000, suonammo a Vicenza Jazz. Mi disse: «Marc (Johnson) non poteva venire. Ho portato questo ragazzo, si chiama Larry Grenadier». Paul ha creato un’estetica, un suono inimitabile. Mi ha raccontato sempre delle vicende fantastiche e, tra l’altro, mi ha anche lasciato l’inizio di una sua autobiografia. Dopo il disco su Fellini dovevamo fare un tour nel 2003, ma ricevetti una mail dal chitarrista Steve Cardenas per avvisarmi che Paul era stato ricoverato in ospedale. Era andato per un controllo ma gli avevano trovato una situazione complicata, tanto da impiantargli alcuni bypass. Così abbiamo iniziato a sentirci telefonicamente con regolarità, perché lui non poteva più muoversi da New York. Tieni conto che Paul era abituato a fare dai dieci ai dodici tour europei all’anno! Non era un personaggio facilissimo: sul palco faceva il piccolo boss, un leader: comandava lui, anche da sideman. Voleva fare sempre cose nuove ed era – potrà stupire – innamorato della melodia. Nel 2002 registrammo «Doorways», di cui scrissi tutti i brani pensando al nostro suono. Un paio, particolarmente melodici, erano i più amati da Paul. Continuammo a sentirci e nel 2010 successe un fatto incredibile: mi arrivò una sua mail – che ancora con
servo – in cui mi chiedeva: «Ti va di suonare una settimana al Village Vanguard? Ho pensato di chiamare anche Marc Johnson». Fu una settimana pazzesca! Suonavo davanti a Paul Motian e, sopra la sua testa, c’era una foto del 1961 che lo ritraeva con Bill Evans e Scott La Faro; lui ancora con i baffoni che sottolineavano le sue origini turco-armene. Alzavo gli occhi dalla tastiera, guardavo quella foto e mi rimettevo a capofitto a suonare! Sono stati momenti incredibili.

Avrete registrato parecchio.
La prassi del Village è di incidere il martedì e il mercoledì. Di materiale inedito ne è rimasto tantissimo, che con il produttore si è deciso di mettere da parte.

Paul Motian ed Enrico Pieranunzi - foto Andrea Boccalini
Nell’ufficio del Village Vanguard, Paul Motian ed Enrico Pieranunzi – foto Andrea Boccalini

Qual è il disco di Paul Motian che più ti ha colpito?
Sicuramente tutti quelli del trio con Lovano e Frisell, poi quelli con Jarrett e quelli con Paul Bley. Motian aveva un suo copyright.

E anche una sua cifra autoriale…
Grazie di averlo ricordato! Possiedo certi suoi brani – alcuni li abbiamo anche incisi – che evidenziano quanto sia stato geniale anche come compositore. Il pianista francese Stéphan Oliva ha inciso un disco basato sulle composizioni di Paul. Motian era un picassiano: costruiva la musica destrutturandola.

Oggi chi è l’erede di Paul Motian?
Non ci sono eredi. Il suo modo di suonare se ne è andato con lui. Era come Monk: non puoi suonare come lui. Imitare Motian, come Monk, è impossibile: altrimenti diventi un clone senza personalità. I batteristi oggi tendono a seguire di più i virtuosi e non i musicisti come Paul Motian.

Alceste Ayroldi