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ELINA DUNI QUARTET
Bari, teatro Forma, 18 marzo 2014
«Il lungo viaggio che la musica afroamericana ha percorso». Dice bene Roberto Ottaviano, direttore artistico della rassegna Nel gioco del jazz organizzata dall’omonima associazione, nell’introduzione al concerto (un rito che se ben fatto, vale la pena assaporare). E la musica di Elina Duni ha entusiasmato il pubblico del teatro Forma di Bari, tagliando a fette l’atlante geografico dell’improvvisazione. Mette a nudo i Balcani, ricostruisce architetture ancestrali e dà fuoco a ritmi tribali.
Nonostante il passaporto svizzero Elina Duni non ha mai dimenticato le sue radici albanesi, che hanno trovato nuovo vigore in un possente jazz con targa nordeuropea.
La cantante di Tirana divide il palco con il pianista Colin Vallon, con lei già da tempo, il contrabbassista svedese Björn Meyer, che sostituisce l’annunciato Patrice Moret e sfoggia un luccicante contrabbasso elettrico, e il batterista Norbert Pfammatter: il quartetto che ha fatto accendere i riflettori di casa Ecm sulla musica della Duni, con la produzione del disco «Matanë malit».
Il viaggio, come la stessa cantante dice in un italiano corretto (da lei assimilato grazie alle canzoni di Celentano, Morandi e gli altri cantanti amati dalla madre), ha inizio: dal sud dei Balcani fino a percorrerne tutta la direttrice verso nord. La sua voce è di una brillante nitidezza, capace di ammutolire, di emozionare. Alla straordinaria estensione associa quella capacità interpretativa che poche possono vantare: rigorosa, con un naturale vibrato che le consente tutte le coloriture che vuole. Spaske pas nji pikё mёshirё apre il sipario su un mondo di armonie senza tempo e spetta ai battenti dell’eccellente Pfmmatter il contrappunto ritmico all’incalzante melodia disegnata dalla voce della Duni; Vallon prepara il piano con vari oggetti che, di volta in volta, piegano il suono delle corde al suo piacimento. Sa pesare ogni fibra di nota, ma anche lanciarsi in tempestose fughe che mettono in chiaro tutta la sua personale tecnica. Meyer è metronomico, il suo suono largo e polposo si fa strada con piacevole lentezza a sorreggere un gioco di dinamiche e di rimpiatti tra pianoforte e batteria. Si cuciono lembi di musica afroamericana addosso agli abiti balcanici, come nel blues albanese (così presentato dalla vocalist) Nënë moj. Gli assoli sono accennati, mai roboanti e smaccati, per collocarsi nel contesto delle trame sonore.
Le trentasei lettere della lingua albanese vengono fuori in tutta la loro elegante e gioiosa musicalità mescolandosi anche con accenni ritmici del 2/4 tipico del samba.
Puglia e Calabria sono le regioni con la maggiore presenza di comunità albanofone e, giustappunto, il sindaco di Carfizzi (provincia di Crotone) ha inteso omaggiare la vocalist consegnandole lo stemma comunale.
L’encore è richiesto a gran voce ed Elina Duni sorprende tutti, dedicando agli «esigranti» (calembour tra esiliati ed emigranti) una torrida ed emozionante versione di Amara terra mia.
A Ayroldi