Era atteso il ritorno di Egberto Gismonti, all’Auditorium romano, e la buona risposta del pubblico, che ha garantito una presenza abbastanza folta, attenta e calorosa, ha saputo rendere ragione di tanta aspettativa.
Il musicista di Carmo ha il grande privilegio – e la responsabilità, insieme – di portare in tour se stesso, la propria storia, una visione musicale complessa e stratificata, per alcuni aspetti meta-musicale, e non si è sottratto al cimento, offrendo al pubblico un set lungo e appassionato, suddiviso in due parti, la prima, di circa quaranta minuti, dedicata alla chitarra, e la seconda, di un’ora abbondante, al pianoforte.
Nei fatti, le due porzioni del concerto hanno riproposto il programma e la scaletta di due dei più noti dischi incisi da Gismonti per la Ecm, «Dança dos Escravos» (1988) le cui fitte tessiture chitarristiche hanno riempito la prima parte del concerto (ma nei medley sono stati assorbiti anche spunti e brani da «Dança das Cabeças», disco di esordio del 1977 per la stessa etichetta), e «Alma» (1986) disco pianistico tra i più amati dai fan.
Sicché in un «disordine» assolutamente non casuale si sono susseguiti brani di un repertorio tanto solido quanto originale, come Dança das Cabeças, Dança dos Escravos, Lundu, Alegrinho, Salvador, Baiao Malandro, Loro, Karatê, Maracatú, Agua e Vinho, Frevo, 7 Anéis, Realejo. Due stacchi di dialogo con il pubblico (per un’insolita vena di loquacità) hanno permesso al musicista di ricordare le proprie origini per metà italiane e soprattutto di sottolineare l’incredibile ricchezza del patrimonio musicale brasiliano, frutto di così tanti apporti culturali diversi.
In chiusura, dunque, prima dei bis, un tributo «sentimentale» alle origini, con Retrato Em Branco E Preto, di Tom Jobim, O Trenzinho do Caipira, di Heitor Villa-Lobos (già parte del recital chitarristico) e Carinhoso, stupendo brano di Pixinguinha, trasposto in una versione diafana e incantata.
Non si smentisce la caratura artistica di Gismonti, che pure in alcuni passaggi pianistici iniziali è parso meno lucido del solito (mentre la sua tecnica chitarristica, assolutamente personale e fuori dall’ordinario, è rimasta del tutto intatta): il sincretismo tra accademia e aspetti popolari (se non addirittura «naturalistici», quasi espressione di un «candore arcaico» simile a quello di Henri Rousseau) è, da sempre, sin dagli esordi degli anni Settanta (in una temperie espressiva quasi progressive) precisa cifra autoriale, confermatasi e impostasi negli anni, che sa coniugare, tanto per dire, suggestioni amazzoniche e sensibilità armonica occidentale.
Questa considerazione permette di tornare anche sull’argomento annoso della «macchina culturale» costruita negli anni da Ecm e da Manfred Eicher.
Non vi è dubbio che l’etichetta tedesca abbia saputo offrire a Gismonti un poderoso diritto di tribuna, del quale il musicista si è largamente giovato, in termini di notorietà e di ampiezza. Ma egli era entrato nella scuderia eicheriana già come un magnifico cavallo di razza, fortemente definito nella stratificata profondità espressiva che gli è propria (e in questo anche certamente aiutato, negli anni, dalla titolarità di un’etichetta discografica propria, la Carmo).
Per cui, pur avendo contribuito forse come nessun altro alla definizione delle coordinate di quel «folk immaginario» che ha fatto la fortuna dell’etichetta (segnandone però anche molti dei limiti consustanziali, come matrice di «significanti senza significato», funzionali a una produzione volta a creare precipuamente uno «stile di vita»), può ben dirsi che nel suo lungo percorso non vi sia stata artefazione, non essendovi mai mancato quello che Peter Kowald definiva «filtro del rispetto», nell’approccio al meticciato e alle molte culture stratificate.
Questo ha permesso a Gismonti di suonare sempre e soltanto la propria musica (con la propria tecnica, la propria idea di composizione, la propria visione di autore e delle cose) e la musica delle proprie profonde radici, impregnando piuttosto di sé i progetti degli altri. Il che, a ben vedere, corrisponde all’essenza di un musicista che ha affermato: «Io faccio musica solo per rendere felice l’altro. La musica non serve a nient’altro».
Si attende ora un nuovo disco, che, in anni di produzione così rarefatta, giungerebbe comunque assai gradito e dovrebbe contenere, a quanto si dice, incisioni dal vivo riprese in occasione di concerti italiani.
Sandro Cerini