Autumn in New York: Krall e Bennett alla Rainbow Room

di Enzo Capua

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Tony Bennett e Diana-Krall - foto di Mark Seliger (cortesia Universal)
Tony Bennett e Diana Krall - foto di Mark Seliger (cortesia Universal)

«Non ne fanno più di party così belli! Un tempo era diverso: ci si divertiva di più nel business della musica». «È che non si vendono più tanti dischi, cara…». Questo scampolo di conversazione, non certo originale ma quantomeno indicativo, aleggiava nella Rainbow Room, una delle sale più belle e famose di tutta New York con tanto di vista mozzafiato sui grattacieli indorati dal tramonto settembrino. Del resto, Autumn in New York è sempre qualcosa di assolutamente magico, imperdibile, nella metropoli americana. Si celebrava l’uscita di un disco che vuole riportare in auge il glamour di un tempo, la bellezza inalterabile delle musiche di uno dei più grandi songwriters mai esistiti, George Gershwin, per via di due voci che di sensazione ne fanno (eccome…) ma per versi differenti: Tony Bennett e Diana Krall. Una coppia con una differenza d’età da vertigini ma con un «assemblaggio» ben curato, a scanso di crisi di rigetto e perfettamente regolato, quasi fosse un orologio svizzero come quelli che non si fanno più. Bennett sembra uno scherzo della natura: non si può cantare così bene a novantadue anni, non è proprio possibile, eppure – grazie al cielo! – è così. La voce, è vero, richiede grazia, maturità, cura e anche qualche sofferenza ben nascosta per colpire ancora al cuore; ma i limiti fisici li detta solo il tempo, non l’arte. Invece Mr. Bennett se n’è sempre infischiato degli anni ed è andato avanti per la sua strada strabiliando anche i critici più scrupolosi (ed è chiaro che qualche esitazione sugli acuti c’è, ma passi pure…). L’amicizia con Antonia, la figlia e anch’essa cantante, ci consente di sapere in sottovoce il segreto di Tony: «Papà non fuma, non beve e non fa stravizi da parecchi anni. E poi si esercita sempre con la voce. Ogni giorno. Tutti i santi giorni!». Detta così sembrerebbe facile, eppure un qualcosa in più ci deve essere: un patto col diavolo? Chissà…

Diana Krall e Tony Bennett alla Rainbow Room (foto di Enzo Capua)
Diana Krall e Tony Bennett alla Rainbow Room (foto di Enzo Capua)

La signora Krall, invece, non sappiamo quanto si eserciti ma tecnicamente è sempre ineccepibile, pur mancando di certe doti di charme e di acuta sensibilità, che forse solo gli anni o un certo tipo di vita ti possono dare, anche se sospettiamo fortemente che ci vengano date alla nascita da qualche angioletto capriccioso. Comunque l’accoppiata funziona, e bene, come non funzionavano altri duetti che Tony aveva già sperimentato nel corso di questi anni recenti (e taciamo sui nomi per non ingelosire le signore). Ma ben discosto – quasi celato –  c’è anche un asso nella manica che fa da suggello imperiale a questa operazione. Si chiama Bill Charlap, e per chi non lo sapesse è probabilmente il più grande fra i pianisti traditional (e ci si scusi di usare un aggettivo così poco affascinante) che sono in circolazione nel jazz o nel cosiddetto «grande songbook americano» tout-court. Charlap non solo distoglie la Krall dall’incombenza di suonare il pianoforte (che lei peraltro sa usare molto bene) per farla dedicare solo alla voce, ma anche abbellisce, incanta, ricama con assoluta maestria – e profonda sensibilità – un album che senza di lui sarebbe solo gradevole, allettante, e che invece diventa un gioiello. Vero è che di party così sontuosi se ne fanno sempre di meno nel business, ma se di dischi se ne vendono pochi è anche vero che le occasioni per emozionarsi si sono rarefatte. «Love Is Here To Stay», questo il titolo del disco del signor Bennett e della signora Krall, ci dà per fortuna un’altra possibilità in più per rincuorarci, ricrederci e allontanare il diavoletto del cinismo.

Enzo Capua

Tony Bennett Diana Krall Love Is Here To Stay