Dayna Stephens: Gratitude

di Nicola Gaeta

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Dayna Stephens (foto di Gulnara Khamatova)
Dayna Stephens (foto di Gulnara Khamatova)

Dopo otto album a suo nome, il giovane sassofonista Dayna Stephens si è finalmente imposto sulla scena del jazz.

Facciamo un passo indietro, giusto per orientarci. Nel luglio del 2007, ormai più di dieci anni fa, uscì sul mercato un disco intitolato «Timeless Now» a nome di un sassofonista completamente sconosciuto, Dayna Stephens. Con lui c’erano Taylor Eigsti al piano acustico ed elettrico, Ben Street al contrabbasso ed Eric Harland alla batteria. John Scofield suonava la chitarra come ospite in tre brani e Nick Vayenas (ancora oggi misconosciuto) il trombone in un pezzo intitolato Once Upon A Timeless Now. Era uno dei tanti dischi di jazz dell’epoca ma alcuni si accorsero del fraseggio del leader, raffinato e, nello stesso tempo, vigoroso, caldo, soulful pieno zeppo di un’emotività intimista ma non timida. Da allora Dayna Stephens non ha perso un colpo e ha regalato al suo pubblico (che ormai lo ha fatto diventare quasi un fenomeno di culto) otto esempi di ciò che significa suonare jazz al giorno d’oggi: rileggere la tradizione attraverso un linguaggio di sintesi maturato dalla frequentazione di tutto quello che è successo, dallo Swing al bop al free, nell’idioma afroamericano nel secolo scorso. Non abbiamo mai smesso di occuparci di lui nelle nostre recensioni fino all’ultimissimo «Gratitude», il piccolo capolavoro col quale è in questo momento sul mercato e che ci ha stimolati a contattarlo per chiedergli di fare quattro chiacchiere con noi.

Penso al tuo ultimo disco come ad un lungo momento di dolce introspezione. E mi sembra che ci sia anche un cambio di rotta rispetto ai lavori precedenti, anche nella scelta dei musicisti che vi sono coinvolti. Che sta succedendo?
In realtà i brani contenuti nel disco provengono dalle stesse sedute di registrazione che abbiamo fatto quando abbiamo inciso «Peace». All’epoca volevamo incidere un solo disco, a un certo punto ci siamo accorti di avere un sacco di materiale in più e non sapevamo come fare a pubblicarlo. La scelta è stata difficile. Abbiamo fatto sedimentare il tutto e abbiamo aspettato che giungesse il momento per pubblicare un altro disco. Ed è venuto fuori «Gratitude». Se ci fai caso i musicisti sono gli stessi di quel disco. Però hai ragione quando dici che è diverso rispetto agli altri. E lo è già nelle nostre intenzioni. Potremmo definirlo un disco di ballads, anche se l’avevo pensato come un commento sonoro per immagini, per un film. L’obiettivo è stato quello di suonare qualcosa di intimo che si distaccasse da una dimensione intellettuale del jazz. Si tratta fondamentalmente di pezzi pensati a mo’ di canzone. Fatta eccezione per Isfahan, scritta da Billy Strayhorn e Duke Ellington, tutto il resto è stato scritto dai miei amici con l’intento di dare al lavoro un’atmosfera uniforme. Quella appunto della forma canzone con una forte connotazione intimista.

Vorrei citarti i titoli dei brani che hanno colpito più di altri la mia immaginazione, così me li spieghi… Per esempio: Emilie a chi si riferisce?
È la sorella di un mio amico che ha composto il brano e che si chiama Olivier Manchon. Lo conosco dai tempi del college. Aveva scritto questo brano per una serie televisiva non molto popolare, andata in onda per una sola stagione, intitolata «Black Block». Per la verità ne aveva scritti due. Questo è il pezzo che è stato scartato, allora gli ho chiesto se potevo utilizzarlo per questo disco e lui ha acconsentito.

Dayna Stephens
Dayna Stephens

We Had A Sister…
È un pezzo di Pat Metheny. Quando mi sono avvicinato al jazz ricordo che una delle mie prime influenze è stato Joshua Redman, che registrò questo brano insieme a Charlie Haden, Billy Higgins e, appunto, Pat Metheny. Non ricordo se fosse il primo o il secondo dei suoi dischi. Sin da allora ho avuto sempre il desiderio di registrarlo.

Isfahan…
È un brano di Billy Strayhorn, una composizione molto intimista. Ricordo che Joe Henderson, uno dei sassofonisti che ho amato di più, l’ha suonata diverse volte. Il suo inserimento in questo disco è stato il mio personale omaggio a due giganti come loro.

Mi racconteresti in sintesi la tua storia?
Mio nonno e mio padre mi hanno fatto scoprire il jazz. Ho iniziato a suonare il sax più o meno intorno ai dodici anni e mezzo, tredici. Quello è stato il periodo in cui ho iniziato ad ascoltare questa musica con attenzione. Ho frequentato una scuola in California, la Berkeley High, che è molto famosa per aver prodotto musicisti come Joshua Redman, Billy Green, David Murray, Charlie Hunter. Tanti bravissimi jazzisti sono usciti da quell’istituto, per cui ho pensato che fosse la scuola da frequentare durante l’ultimo anno delle superiori. Anche Justin Brown è venuto fuori da quella scuola. Poi mi sono iscritto al Berklee College of Music che ho frequentato per quattro anni: lì ho conosciuto e studiato più o meno con tutti quelli che contano. In seguito sono andato al Thelonious Monk Institute dove ho studiato con Herbie Hancock, Wayne Shorter, Terence Blanchard e tanti altri grandi musicisti come John Scofield e Dave Holland. Sono stati tutti quanti miei insegnanti. Da Los Angeles mi sono spostato a San Francisco dove ho vissuto un anno, e infine sono andato a New York. Abito lì da tredici anni. Da quando sono arrivato a New York ho cercato di organizzare un mio gruppo suonando nello stesso tempo con moltissimi musicisti, tutti quelli con cui ho potuto, provenienti da tutte la parti del mondo: da Israele, dall’Italia, dalla Francia, dalla Finlandia, dappertutto. Ho suonato per dieci anni con Kenny Barron: questo autunno uscirà un suo nuovo album in quintetto.

Adesso dove vivi?
In una città dello stato del New Jersey che si chiama Paterson.

Quali sono i tuoi principali punti di riferimento? Come sassofonista ma anche come compositore…
Come sassofonisti Sonny Rollins, John Coltrane, Wayne Shorter, Michael Brecker, Lester Young, Johnny Griffin, ho già citato Joe Henderson. Poi Warne Marsh, Mark Turner, non so se conosci Ralph Moore, Chris Potter, Seamus Blake, sono veramente tanti. Come compositori Bach, Brad Mehldau, Wayne Shorter anche in questo caso, Chick Corea… Sono tanti anche loro.

Di recente hai suonato in Italia. Ti è piaciuto? Che ricordo hai di quella esperienza?
Ho suonato in una città che porta il tuo cognome, Gaeta, per il Gaeta Jazz Festival, è stata un’esperienza molto bella. Ho anche suonato in Sicilia, a Siracusa, poi a Cagliari, a Firenze, a Milano. Ho suonato anche a Roma, al Cantiere. Ogni volta che suono in Italia non mi viene la minima voglia di tornare a casa.

È davvero così difficile sopravvivere oggi suonando jazz?
Sì, penso proprio di sì, almeno in America. Credo che in Europa ci siano meno problemi. Ho avuto la sensazione che lì da voi il jazz sia maggiormente apprezzato, ma in America suonare solo jazz è dura, a meno di non chiamarsi Herbie Hancock.

Dayna Stephens «Gratitude»
Dayna Stephens «Gratitude»

Qual è, se esiste, il legame tra l’arte e il marketing?
Credo sia importante dare a entrambi lo stesso risalto. Se si riesce a fare questo, la sopravvivenza diventa meno problematica. Il vero problema è che molti artisti non hanno le capacità giuste per occuparsi di marketing, per cui devono assumere qualcuno che lo faccia per loro. Molti miei colleghi suonano preoccupandosi soltanto del proprio piacere personale. Come puoi ben capire, questo è un errore madornale perché il problema è guadagnarsi da vivere. Per cui il marketing assume oggi un ruolo fondamentale per lo sviluppo dell’arte, e anche se non c’è nulla di artistico o di creativo nell’occuparsene sarà molto opportuno, da parte nostra, imparare almeno i suoi rudimenti.

Che cos’è per te il jazz?
Bella domanda… Per me è più un processo evolutivo che un genere musicale. Il jazz sottintende evoluzione, unicità. L’unica vera certezza quando si parla di questa musica è che essa cambia continuamente e si evolve continuamente. Il jazz non deve essere dogmatizzato, non deve restare sempre lo stesso. Ecco questo è per me il jazz.

E cosa pensi dell’idea di non chiamare più la musica afroamericana con questa parola ma con un’altra? Non più jazz ma BAM, Black American Music, perché la parola jazz sembra essere offensiva per il vostro popolo…
È davvero curioso che tu mi faccia questa domanda, perché io sono fra quelli in totale disaccordo con questa visione. È vero che il termine jazz all’inizio aveva un’accezione molto negativa. Era un termine che proveniva dal mondo della prostituzione, da una cultura che voleva denigrarne un’altra, ma nel corso degli oltre cent’anni in cui questa musica si è sviluppata quel termine è stato completamente trasformato perdendo completamente la sua negatività. Il jazz si è mischiato con molte altre culture che ne sono state coinvolte, è diventata una musica molto aperta e tante persone provenienti da esperienze diverse hanno contribuito alla sua evoluzione. Per cui se adesso, nel 2017, nel XXI secolo, si vuole fare del jazz una musica che esclude qualcun altro, non gli si rende un buon servizio perché non si riconoscono tutti i contributi che, nel corso degli anni, hanno fatto sì che diventasse il fenomeno importante che è. Credo che chiamarlo BAM non sia per niente giusto e corretto. Ne ho parlato con Nicholas Payton, ne abbiamo discusso, e se guardi su Youtube o Facebook di tre, quattro o cinque anni fa ti renderai conto della mia posizione. Sono sempre stato in forte dissenso con Nick. È chiaro che un giovane ragazzo nero deve sapere da dove viene questa musica, per carità, nessuno può pensare il contrario, ma etichettare questo immenso universo esclusivamente con il termine black music è ridicolo e non riflette quello che è realmente accaduto in America. È vero, l’America è un paese molto razzista, ma il nostro obiettivo deve essere quello di restare inclusivi, aperti a tutti; bisogna accogliere tutti, e per me il jazz è un perfetto esempio di questa apertura. Suonando jazz vengo in Italia, vado in Israele, in India, vado dappertutto e il jazz è sempre lì con la propria voce, con la propria personale evoluzione. Non chiamerò mai questa musica BAM.

Il tuo prossimo progetto…
Questa è la domanda più difficile che mi hai fatto. Ci sto ancora pensando. Ho molti progetti che vorrei realizzare ma al momento sto cercando di restringere il mio campo d’azione. L’unica cosa che so è che probabilmente sarà un trio. È tutto quello che riesco a dirti per adesso.

Nicola Gaeta