Il jazz secondo David Moss: «Vengo dalla batteria e da questa deriva la mia voce.»

di Enzo Boddi - foto di Steffen Janicke

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David Moss - foto di Steffen Jänicke
David Moss - foto di Steffen Jänicke

Intervista con David Moss: la voce è teatrale, la voce non è come un sassofono, in virtù del suo collegamento con il corpo essa fa parte dell’evento scenico.

Sei fondamentalmente conosciuto per le tue abilità vocali. Non tutti sanno però che in origine sei un batterista. Puoi riassumere come si è sviluppata la tua formazione?
Mio padre era stato un batterista per hobby e aveva suonato dixieland, ma lo scoprii solo quando avevo dodici anni. Quando la mia famiglia si trasferì da New York, io e mio fratello trovammo con nostra grande sorpresa una batteria dentro un vecchio scatolone. Mio padre ci disse che era la sua vecchia batteria del 1929. Quando gli dissi che volevo suonarla, lui accettò di insegnarmi la corretta impugnatura delle bacchette e tutti i primi rudimenti. I miei primi contatti avvennero con il jazz che mio padre amava: il dixieland, lo Swing. Poi venne il be bop. Cominciai a suonare la batteria a tredici anni, ascoltando Miles Davis, Milt Jackson e quei loro meravigliosi grooves. Quindi divenni batterista per le big band del college e dell’università. Dopo di che, mi misi alla ricerca di qualcuno che potesse portarmi oltre: non tanto un insegnante di batteria, quanto qualcuno che avesse delle idee.

Fu a quel punto che avvenne il tuo incontro con Bill Dixon?
Avevo sentito parlare di Bill Dixon, che insegnava al Bennington College nel Vermont, dunque non tanto lontano da casa mia. Quando chiamai un amico che viveva lì, lui mi disse che Dixon non aveva dei buoni allievi di batteria e mi sollecitò ad andare a Bennington per provare a cogliere questa opportunità. Così feci, incontrai Dixon e sostenni un’audizione, eseguendo un assolo speciale per lui. Ero agitatissimo e lui mi disse semplicemente “Ok, sei dei nostri”. E così per due anni rimasi con lui, cercando di imparare tutte le possibilità a disposizione per un batterista. Infatti, non mi interessava suonare ding-a-ding-a-ding per tutta la vita, mentre invece Bill mi parlava di ritmi e colori differenti. Così il mio set cominciò ad espandersi con nuovi colori e nuovi oggetti, dandomi la possibilità di ottenere sonorità diverse e di suonare ritmi complessi. Da Bill ho imparato anche l’uso dello spazio e l’importanza dell’arrangiamento e della composizione.

Se non sbaglio, la collaborazione con Dixon risale al periodo 1971-1973.
Esatto. Allo stesso tempo, tra il 1972 e il 1973 trovai anche alcuni musicisti della mia età con cui eseguire pura improvvisazione basata solo su suono e ispirazione, non su clichés o generi. Amavo l’ultimo John Coltrane e le idee e l’energia di batteristi come Rashied Ali, Elvin Jones e Tony Williams. Inoltre, volevo sviluppare ulteriormente la lezione di Milford Graves, che occasionalmente insegnava a Bennington e mi aveva profondamente influenzato ancor prima di incidere i suoi dischi per la ESP. Mi affascinava l’idea che la batteria potesse cantare e che al tempo stesso si potesse combinare il canto con la batteria, come avevano fatto Milford e Barry Altschul, che per me avevano rappresentato i primi esempi di connubio tra voce e batteria. Fu appunto nel 1972 che iniziai ad aggiungere la voce al mio drumming e questo creò una grossa controversia sia con i miei colleghi che con lo stesso Dixon, che non voleva assolutamente che cantassi. Per lui questo era troppo e continuava a ripetermi: “Sei un batterista! La tua voce è troppo emotiva ed io non voglio emozioni!”. Per parte mia, non volevo trattenere le mie emozioni e, pur considerando Bill un maestro e un guru, a un certo punto decisi di interrompere la collaborazione per intraprendere la mia strada.

David Moss - 25 maggio 1985, Groningen, Netherlands. (foto di Frans Schellekens/Redferns)
David Moss – 25 maggio 1985, Groningen, Netherlands. (foto di Frans Schellekens/Redferns)

Con quali risultati, nell’immediato?
Iniziai a pensare a come organizzare un concerto in solo. Per caso, ricevetti una telefonata da un’amica, professoressa all’università di Saint Louis, che mi propose un concerto in solo. Ero un po’ spaventato all’idea, pur considerando gli esempi precedenti di Milford Graves, Barry Altschul e Famoudou Don Moye. Tuttavia, non volevo imitarli e così passai sei mesi a praticare cinque o sei ore al giorno dentro la mia cucina per riuscire a concepire un mio stile e una qualche struttura. Feci così la mia prima performance solistica, che fu per me una fonte eccezionale di informazioni riguardo alle idee e alle direzioni da sviluppare. Capii l’importanza della presenza di un pubblico e mi resi conto che la gente desiderava il piacere, la fantasia, la sorpresa. Mi attirava l’idea di poter offrire loro queste qualità attraverso la batteria e la voce: una grande libertà e un grande potere da condividere.

Ad un attento ascolto, infatti, si percepisce nettamente la connessione tra la tua voce e la tua formazione di batterista.
Quello che la maggior parte dei cantanti di formazione classica non capiscono è che io vengo dalla batteria e da questa deriva la mia voce. Quando partecipo a un’opera o a qualche lavoro teatrale, alcuni cantanti vengono da me e mi chiedono: “Ma come fai a cantare in questo modo? Non è possibile! Hai avuto un’operazione alle corde vocali?”. Io rispondo sempre che sono un batterista, il che significa rapidi cambi, movimento, contrasto, accenti. E questo implica anche lunghi respiri per costruire bordoni, così come la possibilità di spingersi molto in alto, toccare il soprano e il falsetto o scendere su tenore e basso nel registro medio. Tutto ciò che faccio deriva dalla mia reazione alla batteria. Molti cantanti d’opera non hanno questa formazione e questo allenamento ai cambi, ai contrasti e alla rapidità di esecuzione. Avendo avuto basi solide di ritmo e suono, dovevo sviluppare una mia tecnica completamente concepita per la voce. Avevo avuto insegnanti di batteria fino a sedici o diciassette anni, ma per la voce ho imparato da autodidatta. Di conseguenza, canto in maniera completamente diversa da chiunque altro proprio perché penso diversamente. Guidando per andare ai concerti, mettevo cassette di Aretha Franklin o James Brown e cercavo di cantare esattamente come loro, o di riprodurre con la voce tutti gli strumenti. Anche imitare i versi degli animali può essere un ottimo esercizio e offrire nuove prospettive.

Veramente non hai mai preso lezioni di canto?
Mai, davvero. Sai, sembra strano, ma a un certo punto della propria vita non si reagisce più tanto positivamente agli insegnanti. Bill Dixon è stato il mio ultimo insegnante. All’epoca in cui lasciai Dixon avevo ventiquattro anni. Avevo accumulato informazioni e avevo bisogno di tempo per elaborare le mie idee. Se si considera la storia della creatività, la maggior parte degli artisti hanno espresso i lavori più creativi prima dei quarant’anni, come del resto hanno fatto i musicisti jazz più noti. Coltrane raggiunse i vertici creativi tra i trentacinque i quaranta e altrettanto fece Miles Davis. Io ho imparato dai suoni circostanti, dalla gente, dalle voci e dai dischi, nonché dagli altri cantanti. Mi sono sforzato di cantare come Diamanda Galas, ho cercato di imparare dalla voce di Bobby McFerrin, ho ascoltato Al Jarreau e ho ricavato informazioni dal suo modo di cantare. Louis Armstrong cantava cose abbastanza “strane”, in uno stile scat connesso agli assolo jazzistici. E poi Cab Calloway! Amo Calloway perché è stato uno dei primi cantanti “anomali”. Le sue interpretazioni erano teatrali e in questo senso Calloway, con il suo strano approccio, mi ha aiutato a capire che la voce è teatrale. La voce non è come un sassofono. In virtù del suo collegamento con il corpo, la voce fa parte di un evento teatrale. Così, essendo passato dal ruolo di batterista, prima in gruppo e poi da solo, alla performance vocale, mi sono reso conto che la maggior parte dei miei modelli provenivano dal jazz. Per me i musicisti più importanti in termini di spirito, qualità, energia e struttura sono stati Coltrane e Bach: sono loro i miei guru. Nel loro caso, ogni nota sembra necessaria. Non c’è niente di superfluo, ogni cosa è al suo posto e ci si sente completamente presi dalla magia della loro musica. Per questo ho sempre desiderato riuscire a creare, nel mio piccolo, una sorta di magia.

David Moss e Uri Caine
David Moss e Uri Caine

A proposito di Bach, hai fornito un contributo rilevante alla realizzazione di «The Goldberg Variations» di Uri Caine, secondo il quale la musica di Bach è come una specie di vaso di Pandora.
Sono d’accordo: Pandora’s Bach! (gioco di parole con l’inglese Pandora’s box, ndr) Uri possiede un ingegno sorprendente e pertanto come pochi altri è capace di combinare tanti spunti ed idee differenti. Uri ed io ci eravamo incontrati a New York nei primissimi anni Novanta, prima che mi trasferissi in Germania, ma allora non avevamo lavorato insieme. Qualche anno dopo Uri, che era al corrente del mio lavoro con Dixon, mi telefonò per propormi di collaborare al suo progetto su Bach. Gli chiesi se avesse veramente bisogno di me, visto che aveva già a disposizione cantanti di impostazione classica e una meravigliosa voce gospel come Barbara Walker. Lui mi rispose: “Ho bisogno della tua abilità di entrare tra, e girare intorno a, tutte le cose che faccio individuandone le connessioni.” Avevo già cantato Bach ed inserito Die Kunst der Fuge – registrata per sola voce su quattro piste – nel mio Cd «My Favorite Things», uscito per la Intakt nel 1991. A proposito, registrerò presto una versione delle Variazioni Goldberg insieme a un pianista classico belga, Daan van der Waal. Lui eseguirà le variazioni e io ci improvviserò sopra. Fondamentalmente per me le necessità della musica sono la gioia, l’energia, la potenza, sotto certi aspetti la meditazione e sia in Bach che in Coltrane ritrovo tutte queste caratteristiche. Mi auguro di raggiungere questi traguardi.

Ci sono anche altri personaggi che hanno cercato di superare i confini della vocalità. Penso a (e cito a caso) Lauren Newton, Shelley Hirsch, Phil Minton, Theo Bleckmann, Cristina Zavalloni, Greetje Bjima.
Ad eccezione di Cristina e Theo, ho lavorato con ognuno di loro in differenti contesti, più spesso in duo o trio. Con Shelley, Greetje, Anna Homler e Carles Santos nel 1989 ho formato il quintetto Direct Sound, con il quale ho inciso «Five Voices», sempre per la Intakt. Shelley ha un’energia, una capacità di raccontare storie e un umorismo incredibili. Ritengo che questi artisti, insieme a pochi altri, formino una piccola cerchia di “espansori”, cioè cantanti capaci di espandere la voce. Per me Phil è il padrone (in italiano, ndr), la fonte delle idee. Phil suonava la tromba e negli anni Settanta cominciò a concentrarsi sempre più sulla voce. A partire dal 1972 dovetti cominciare ad investigare e ricavare informazioni sia sulla musica europea che sulla scena alternativa americana. I primi musicisti appartenenti a quelle aree che incontrai furono Fred Frith, John Zorn e Arto Lindsay (a proposito, un’altra voce “particolare”). Fred mi disse che dovevo assolutamente conoscere Phil Minton, che era anche suo amico. Così nel 1977 Fred allestì un tour in trio con Phil alla tromba e alla voce e me alla batteria (tra l’altro, un set piuttosto nutrito). Ero letteralmente sotto shock: avevo sviluppato la mia vocalità nei cinque anni precedenti, ma Phil era molto, molto più avanti. Imparai moltissimo da lui, senza mai chiedergli di insegnarmi nulla, ma semplicemente suonando con lui sul palco e ascoltando ogni istante la sua concentrazione e la sua energia.

Consideri Demetrio Stratos un pioniere, visto che nella sua pratica vocale era riuscito a combinare musica contemporanea e influenze balcaniche?
Per me Demetrio è un pioniere assoluto. Naturalmente, anche Demetrio aveva sviluppato la sua ricerca contemporaneamente a Phil, essendo più o meno un suo coetaneo, ma non so se si conoscessero. Tuttavia, negli Stati Uniti non avevamo alcuna informazione né sugli Area, né sul rock italiano di orientamento politico. Purtroppo il suo lavoro è stato compreso solo dopo la sua morte, il che è pazzesco. Quando lo si ascolta, si percepisce chiaramente la qualità sperimentale della sua voce anche in un contesto rock o beat, dove lui cercava di spingere le possibilità vocali oltre. In quel periodo lui teneva lezioni e laboratori vocali, dove (ed erano in pochissimi a farlo negli anni Settanta) dimostrava come produrre multiphonics, armonici e sottoarmonici, melodie non convenzionali ottenute utilizzando sfumature vocali. Talvolta la sua voce aveva la qualità di un flauto tradizionale, o di un ney. Inoltre, a quel tempo nessuno proveniente dal mondo del rock avrebbe potuto incontrare John Cage. Fu un punto di rottura, che per Cage rappresentò un’apertura. Infatti, Cage fu messo in condizione di immaginare una voce che non venisse dal mondo dell’opera. Una volta Cage mi disse: “David, mi ricordi Demetrio”, il che mi commosse profondamente. Se si dà un’occhiata a certe partiture di Cage, si nota che anche lui era interessato ad espandere le possibilità della voce: a volte c’era scritto semplicemente “in as many voices as possible” (nel maggior numero possibile di voci, ndr). Dunque, immagino che in parte questo derivi dalla sua esperienza con Demetrio.

Uri Caine Ensemble: «The Goldberg Variations»
Uri Caine Ensemble: «The Goldberg Variations»

Come spieghi che nel campo della sperimentazione vocale vi sia una decisa maggioranza femminile?
Non è un caso che a praticare il concetto di voce estesa (expanded voice nell’accezione originale, ndr) siano molto più numerose le donne. Non riesco a menzionare cinque uomini che stiano compiendo questo lavoro sulla voce svincolato dai generi. Probabilmente questo dipende dal fatto che la voce richiede una qualità emozionale. Culturalmente gli uomini sono più repressi. Inoltre, c’è anche un’altra ragione di ordine culturale: alle donne non viene garantito uguale accesso alla pratica strumentale, specialmente quando sono giovani. Fino a pochi anni fa non avevamo mai visto una batterista, e questi sono clichés di genere. Quindi, per le donne il canto è una strada per raggiungere una posizione di potere che non possono acquisire diversamente. Altro esempio: abbiamo pochissime donne direttrici d’orchestra, perché raramente viene loro concessa questa possibilità.

Quanto alla tua collaborazione con Tempo Reale, si potrebbe dire che lavori come The Table Of Earth e Many More Voices contengano una sorta di implicazione filosofica? Voglio dire, The Table Of Earth è una narrazione sulla terra, mentre Many More Voices si focalizza sull’aria, sul respiro ….
In The Table Of Earth la terra era usata come metafora dell’inizio, della nascita, di un luogo nel quale crescono gli alberi o atterrano gli alieni. Quanto a Many More Voices, per la verità non avevo pensato all’aria. Piuttosto, come amo fare da vent’anni a questa parte, racconto e canto storie che non hanno né un inizio, né una fine, con l’intento di condurre l’ascoltatore dentro la narrazione, senza una successione prestabilita di eventi, ma con l’intento di produrre cambiamenti e sorprese. Per me la musica riguarda ciò che si ama e si spera di amare ancor di più, e quindi cerco di costruire una sorta di piccola trappola per topi in cui attirare e catturare gli ascoltatori.

All’interno delle performance dal vivo di Many More Voices ci sono anche spazi concepiti per l’improvvisazione?
Certo. Abbiamo comunque predisposto una struttura con parti scritte o con diagrammi indicanti duo, solo, testo, momenti di energia, transizione. So a grandi linee che cosa faranno Francesco Giomi e Francesco Canavese, e che in quell’ambito ci saranno momenti di improvvisazione; non conosco in anticipo i suoni che produrranno, ma solo le aree su cui opereranno. Loro sono consapevoli dell’energia che dovrò esprimere in un dato momento, ma non come risuonerà. Così, possiamo fare cambiamenti significativi, repentini e inattesi. L’improvvisazione ha fatto sempre parte del mio lavoro e non ho quasi mai eseguito musica dove non ci fosse improvvisazione. So come usare il tempo, ho imparato da solo a costruire unità temporali, piccole o grandi che siano, e a metterle insieme. È un grande, meraviglioso gioco! Se mi propongono una partitura d’opera, dove tutto è scritto nota per nota, mi viene spontaneo ribattere: “Tante grazie, ma perché volete me? Potreste scritturare un cantante”. A volte mi dicono di desiderare la mia energia e la mia fantasia. Alla mia obiezione che non c’è spazio per queste mie caratteristiche all’interno di una simile partitura, mi rispondono che possono allora creare spazi appositi per me. È quello che fece Luciano Berio, che mi garantì un’enorme libertà all’interno della struttura di Cronaca del luogo.

Come nacque la tua collaborazione con Berio?
Lo incontrai a Firenze nel 1998. Dopo avermi sentito cantare con Heiner Goebbels nell’opera Surrogate Cities con l’Orchestra Regionale della Toscana, mi aveva scritto per fax “Adoro la tua voce, voglio che tu canti nella mia nuova opera”. Per me fu come un sogno, avendo ascoltato a lungo la sua musica. Il suo modo di scrivere era stato molto importante per me, come del resto la voce di Cathy Berberian. Per me fu un periodo entusiasmante: le prove e le sperimentazioni al centro Tempo Reale di Firenze, con Berio che mi suggeriva varie soluzioni, la prima dell’opera (e la mia prima opera, all’età di cinquant’anni!) nel 1999 a Salisburgo. Dopo la prima, ero così felice che mi sembrava di levitare nell’aria.

Enzo Boddi