Dave Burrell: «Ho dovuto superare il free»

di Enzo Capua - foto di Luciano Rossetti

306
Dave Burrell

Dave Burrell, il vecchio compagno di Archie Shepp negli anni bollenti della ribellione, ci racconta come ha saputo riconciliare quelle esperienze con la tradizione.

Per un uomo, un musicista di valore, che ha attraversato gli anni più «caldi» del free jazz e del Black Power Movement e ha poi superato le asperità dei decenni successivi in una dimensione di ardua e comunque rispettabile assenza di compromessi, Dave Burrell si presenta al pubblico e nel privato come un tranquillo gentleman, tanto ironico e pacato da farcelo immaginare ben piazzato tra i docili campi del Devonshire, invece che nella multietnica Filadelfia dove oggi risiede. Eppure la sua carriera di pianista decisamente americano e dalle mille risorse è stata altalenante, con i suoi doverosi riconoscimenti artistici e le abilità, da molti ampiamente riconosciute, di agile sideman, non certo di leader sfrontato. Non è un Cecil Taylor, che lui stesso ricorda con ammirazione e affetto, ma nemmeno uno dei tanti musicisti che il tempo implacabile ha trascinato via nel dimenticatoio. Oggi, alla bella età di settantotto anni, di sicuro non corre alla ricerca del prossimo concerto e – finalmente, diremmo – si gode anche la gioia di un bel riconoscimento: quel «Lifetime Of Achievement» che ogni anno il Vision Festival conferisce a un jazzista che nella vita ha dedicato tutto sé stesso alla musica, senza ricercare effimeri successi ma con caparbietà e conoscenza dei propri talenti. Sotto sotto, infatti, abbiamo il sospetto che dietro la spiccata affabilità, modestia e generosità di Burrell si celi una ferrea volontà di perseguire ostinatamente nient’altro che la sua Musa, la sua inattaccabile arte. Oggi del pianista si ricordano soprattutto due lunghe, e fruttuose, collaborazioni con dei personaggi di primissimo piano in campo jazzistico: la prima, quella sicuramente più nota, è degli anni Sessanta-Settanta con il sassofonista Archie Shepp e la seconda, negli anni Ottanta e Novanta, con un altro sassofonista di pregio come David Murray. In mezzo e in seguito spicca una scarna, ma via via sempre più voluminosa, produzione di dischi e concerti da leader, che si segnala per eterogeneità e continua ricerca di qualcosa – un suono, un musicista, un contorno favorevole – che trasporti il Nostro verso una dimensione nuova, un terreno ancora da esplorare. Forse lui non lo confesserà mai, però il
suo è un animo da troubadour inquieto: una curiosità insaziabile che gli garantisce freschezza mentale e voglia di sperimentare. Così lo abbiamo incontrato in uno splendido appartamento del Greenwich Village di New York, ospite con la moglie durante la settimana del Vision Festival, che Burrell ha avuto appunto l’onore di inaugurare con ben tre concerti in un’unica serata.

Ieri sera al Vision Festival ha fatto una bella rimpatriata con Archie Shepp in quartetto (con William Parker e Hamid Drake). Era un pezzo che non suonavate assieme, vero?
Sì, l’ultima volta è stata a Parigi nel 2008, ben dieci anni fa. A parte qualche problema dovuto alla sua non buona condizione fisica, credo che la sua performance sia stata eccellente. Ma la cosa più importante è che, dal punto di vista puramente umano, con l’età Archie è diventato molto più saggio. Penso che, col passare degli anni, la sua fiducia in se stesso e nei propri mezzi espressivi sia aumentata notevolmente. Io e lui siamo arrivati al punto di poterci donare totalmente al pubblico, anche perché ciò che abbiamo realizzato assieme negli anni Sessanta e Settanta non ritornerà più.

Anche lei si sente più saggio in questi ultimi anni?
Si, certo. Credo di aver fatto molti errori nella mia carriera… Le faccio un esempio: la prima volta che andai a suonare in Europa, con Archie, Sunny Murray, Alan Silva e Grachan Moncur III, era il 1969. Avevo sempre desiderato di recarmi in Europa ed eravamo a Parigi, una città che ci affascinava enormemente. Me ne aveva parlato a lungo Max Roach, che conosceva tutti quei bei negozi di abbigliamento… Max adorava i bei vestiti, e mi consigliò
alcuni posti dove andare: in pratica spesi tutti i soldi che avevo, e anche di più! Comprai anche tanti regali per gli amici. Una volta tornato a casa non avevo più un dollaro! Ma non era sempre così. Certe situazioni esterne possono incidere sul carattere, quindi sulla musica. Mi ricordo di un concerto in Svizzera nei primi anni Settanta: non avevo dormito la sera prima ed ero totalmente incapace di concentrarmi. Poi c’era un nugolo di fotografi che mi seguiva dappertutto e non capivo perché. Mi accorsi di avere Tommy Flanagan, vicino a me, che era lì al festival con Ella Fitzgerald. Lui era in smoking, io vestito come un bohémien trasandato. Ovviamente i flash dei fotografi erano tutti per lui. Mi sentii fuori posto, nervoso.

Ma la sua era, ed è tuttora, una musica diversa. Non proprio in linea con le convenzioni comuni. Le viene in mente invece una gratificazione importante, della quale è ancora orgoglioso?
Sì, per esempio nel riascoltare «Echo», il mio disco del 1969 che veniva direttamente dalla grande esperienza avuta al Festival Panafricano di Algeri con Archie Shepp. Musica d’avanguardia, che a quel tempo non pensavo fosse accettata dal pubblico, come invece avvenne molto bene. Io sono creolo d’origine, anzi mio padre era creolo e mia madre una black woman della Louisiana. Un bel mix che in quel caso, al festival di Algeri, mi ha ricondotto verso le nostre origini culturali.

Dave Burrell

Però credo che lei in passato abbia sentito su di sé qualche forma di razzismo. C’è una differenza con la situazione che viviamo oggi?
Be’, oggi la situazione è sicuramente più rilassata in Europa che negli Stati Uniti, come è del resto noto. C’è una nuova ondata conservatrice qui da noi, anche a causa dei problemi legati all’immigrazione, che risalgono ai tempi delle prime guerre in Medio Oriente. Ma tornando a quel famoso festival di Algeri: la cosa importante per noi è che lì eravamo considerati come vere celebrità afro-americane, accanto ai protagonisti dei movimenti dei diritti civili: le Black Panthers, Stokely Carmichael, che erano lì con noi assieme a Miriam Makeba, Nina Simone, Oscar Peterson. Insomma, tutti noi diventammo un «uno». Un unico essere composto di tante personalità. Devo dire che da uomini di colore non abituati molto a socializzare a New York, ci trovammo come catapultati in una situazione comunitaria, dove si poteva – e ci piaceva – socializzare con tutti. Per esempio, durante i sontuosi banchetti che ci venivano serviti, con più di dieci portate e che duravano fino a tre ore, ci si trovava seduti l’uno accanto all’altro a discutere di politica e di musica in completa libertà. E questi non era affatto consueto per noi, per quanto elettrizzante fosse! Ci sentivamo sempre più orgogliosi e forti nella nostra condizione di esseri umani di colore.

Credo sia stata un’esperienza unica per lei.
Pur essendo nato in Ohio, ho vissuto gli anni dell’adolescenza e prima giovinezza alle Hawaii, dove non c’era alcuna forma di razzismo. Quando, nel maturare, mi resi conto di questa realtà segregante che esisteva negli Stati Uniti, sentii dentro una forma di imbrazzo, di pericolo. Nel ritornare al mio luogo di origine, Middletown nell’Ohio, la cosa assunse aspetti paradossali. Dicevo ai miei amici: Andiamo a passare una serata lì, in quel famoso
locale. E loro: No, non si può. Io chiedevo: ma perché? Le risposte erano davvero disturbanti per me, dal punto di vista psicologico.

Quindi per lei – e gli altri musicisti con cui suonava – la musica assumeva anche una connotazione politica, di reazione allo stato delle cose.
Ma certo! Eravamo decisamente radicali nell’agire, arrabbiati. Specialmente a Parigi quell’aggressività che condividevamo ci portò a prendere coscienza di molte ingiustizie. Come ha detto Archie Shepp proprio ieri sera al nostro concerto, nel leggere alcune sue poesie: noi siamo le vittime di un sistema. In Europa eravamo considerati e ascoltati come non ci succedeva a quei tempi a New York, dove il jazz tradizionale e anche il bop erano
musiche sicuramente ben più accettate della nostra. Musiche che non «agitavano la barca», non scuotevano la logica del sistema. Noi non eravamo, in genere, accettati perché si diceva che eravamo su una strada sbagliata. In effetti noi non volevamo fare nostro uno stato delle cose già acquisito. Volevamo cambiarlo.

Il concerto di chiusura della sua giornata di festeggiamenti al Vision Festival è stato quello di un quintetto totalmente free. Musica improvvisata ed eseguita con lei da James Brandon Lewis e Kidd Jordan ai sax tenori, William Parker al contrabbasso e Andrew Cyrille alla batteria. Non le sembra che il free jazz sia ormai fuori dal tempo, cioè ben storicizzato e datato?
Sì, è vero. Sono d’accordo. Ma volevo rendere omaggio alla ragion d’essere del Vision, che ha celebrato questo stile fin dalla sua nascita e lo ha perpetuato nel tempo. Però, mentre suonavo con gli altri, mi sono trovato a pensare: Non sarà troppo, tutto questo? Non sta diventando tutto ripetitivo, fino a essere prevedibile?

Negli anni Sessanta, e fino a tutti gli anni Settanta, questa forza dirompente
del free era necessaria sia per liberare i musicisti dalle forme precostituite del jazz, sia per rinsaldare la loro cooperazione umana e musicale nel momento stesso di suonare assieme. Oggi tutto ciò è stato superato dalla maturazione di questa musica e dall’evolversi degli stili. Non crede?
Sono completamente d’accordo. E anzi la mia indole di innovatore mi stava spingendo, nel suonare, verso una forma canonica di blues. In fondo è la radice di tutto, no? Ma se l’avessi fatto davvero durante quel concerto, senza una concertazione comune, senza una spiegazione, avrei forse fatto perdere l’entusiasmo e l’energia di qualche musicista della band. Penso a Kidd Jordan, prima di tutti. Quindi ho lasciato correre. Del resto nel primo
concerto della serata, con Steve Swell, Darius Jones, Harrison Bankhead e Andrew
Cyrille, avevo iniziato proprio con un lungo blues, e suonando il pianoforte in stile stride, cosa che non credo di aver mai fatto prima.

Torniamo allora alle sue radici culturali. La sua è una storia di migrazioni con la famiglia: dall’Ohio ad Harlem, quindi alle Hawaii per tornare a New York e poi stabilirsi a Filadelfia.
Mio padre era un sociologo, quindi seguiva i suoi studi. Andammo alle Hawaii perché lui aveva vinto una borsa di studio per analizzare le condizioni sociali nelle Isole del Pacifico. Mia madre invece era una cantante d’opera che si esibì anche a Broadway.

Quindi una famiglia dal background decisamente culturale, con molta musica
nell’aria no?
Proprio così, anzi prima di optare per la Berklee School of Music di Boston stavo per entrare all’Oberlin Conservatory of Music, nell’Ohio. La mia vita musicale sarebbe stata completamente diversa! In realtà mi piacevano sia l’opera, sia il jazz, sia gli spiritual. Mia madre lavorava anche alla radio, dove faceva ascoltare molta musica sacra: era molto impegnata, a Honolulu!

So che le piace molto la musica italiana, vero?
Sì. Adoro Verdi e anche Salvatore Sciarrino, che è decisamente più contemporaneo e che ho avuto la fortuna di conoscere quando venne al Lincoln Center.

Invece la scelta di iscriversi alla Berklee la spinse definitivamente verso il jazz.
Per me fu una specie di sveglia mattutina! Non pensavo, nel cominciare gli studi, di essere così indietro con la mia preparazione musicale. Non ero certo un ragazzo prodigio ma avevo dalla mia parte i genitori, che mi spinsero a seguire le mie aspirazioni senza starci tanto a pensare.

Davvero un grande aiuto e una rara comprensione da parte dei genitori.
Decisamente. Vedi, quando fai parte di una minoranza, vuoi a tutti i costi diventare un componente della maggioranza. L’idea di finire a fare il musicista di routine in qualche show di Broadway non mi allettava affatto. Ascoltavo i dischi di jazz dei miei genitori, generalmente di stile New Orleans, e neanche quella musica mi attraeva fino in fondo. Quando un giorno ascoltai Ahmad Jamal che suonava Poinciana ne fui rapito e nacque in
me il desiderio di suonare in quel modo. Solo che non conoscevo quegli accordi! Chi me li insegnerà mai? mi dissi.

Le piacevano il senso ritmico e gli intervalli di Jamal, dunque.
Sì, il ritmo era importante. Mi piaceva molto anche Erroll Garner, da ragazzo. Avevo quel suo bellissimo disco «Mambo Moves Garner» (1954, Mercury) con Candido alle congas! E poi finii per suonare anche con Candido, che mi insegnò molte cose sul ritmo cubano.

Ritornando al presente, dopo questa consacrazione al Vision, quali sono i suoi nuovi progetti?
Ho da poco finito di incidere un disco con due brillanti musicisti siciliani: Alessandro Nobile al contrabbasso e Antonio Moncada alla batteria. Hanno quel senso del ritmo che a me piace molto e che mi avvicina alla Sicilia. Mi fa sentire a mio agio.

Max Roach ebbe a dire che ogni svolta importante nella storia della musica è avvenuta tramite il ritmo.
Mi sembra giusto. È una dichiarazione valida. Max mi sorprese molto quando suonò con Cecil Taylor. Ricordo di aver visto per la prima volta in concerto Cecil alla Berklee nel 1961 o 1962 e, quando lo incontrai, gli dissi che mi piaceva molto il suo modo di suonare gli standard, i suoi arrangiamenti. Lui mi guardò e rispose: «Ah, la conosci bene questa roba…». Quanto tempo è passato! Pensa che ho saputo solo ieri, da un’intervista di Archie Shepp al New York Times, che lui aveva lasciato il college nel Vermont, nel 1959, per andare a suonare proprio con Cecil Taylor! C’era molto rispetto reciproco tra me e Cecil: ho sempre ammirato il suo modo così personale di esprimersi in musica. Quel suo amore per le cantanti, Lena Horne, Sarah Vaughan: qualcosa che emergeva dalla sua infanzia… Anche Thelonious Monk aveva questa capacità: quando lo senti suonare Coming On The Hudson sei accanto a lui a passeggiare lungo il fiume.

Enzo Capua

(Estratto dall’intervista pubblicata sul numero di luglio 2018 di Musica Jazz)