Daniel Humair & Bruno Chevillon: i due volti dell’improvvisazione

Una generazione di differenza non ha impedito ai due maestri transalpini di collaborare da anni

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Daniel Humair + Bruno Chevillons

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Daniel Humair

Sempre aggiornatissimo, sempre sul filo dell’attualità anche a ottant’anni, Daniel Humair, il batterista-pittore-gastronomo di Ginevra – ma da lungo tempo francese d’adozione – ripercorre le tappe di una carriera che lo ha visto suonare con tutti i più grandi e che è ben lontana dal concludersi.

Daniel Humair, come reagisce a chi le rimprovera un certo giovanilismo?
Se trovo un signore della mia età con cui mi diverto non vedo perché non dovrei suonarci. Io sono un jazzista, e che cos’è il jazz? Una conversazione su un argomento ben preciso. Che i conversatori siano giovani o vecchi conta poco: l’importante è che non alzino la voce a sproposito. E poi cosa vuol dire giovanilismo? Continuo a suonare con Michel Portal e Joachim Kühn, che non sono certo dei giovincelli! Semmai, molti musicisti della mia generazione suonano musica che non avrei difficoltà a definire datata. Per dirla tutta, nella mia vita ho avuto una grande fortuna: trovarmi al posto giusto nel momento giusto. Ciò mi ha permesso di suonare, dal bebop in poi, con i più grandi: Cannonball Adderley, Dizzy Gillespie, Milt Jackson, Sonny Stitt, Phil Woods, Eric Dolphy e la lista potrebbe continuare a lungo. Cinquant’anni più tardi non ho più voglia di riscaldare una vecchia minestra! Sono sicuro che al pubblico piacerebbe e probabilmente troverei più concerti. La gente è rassicurata da cio che conosce, in musica come in pittura. Ma preferisco cinquanta spettatori colpiti, anche in negativo, e centocinquanta incuriositi, che ritrovarmi deluso a fine concerto con duecento spettatori soddisfatti. Suono perché mi piace, è una professione ma anche una passione. E suono con piccoli mezzi, altro che storie! Ho sufficienti frecce al mio arco per fare soldi con ben altro. Idem in pittura: non dipingo per vendere i miei quadri. Pittura, jazz, cucina mi fanno sentire bene, costituiscono la mia igiene di vita. So perfettamente ciò che voglio e, per il momento, gli scaffali della mia vita sono ben riempiti.

Veniamo alla batteria. Quale pensa che debba essere il ruolo del batterista in un gruppo?
Fare in modo che la propria personalità si inserisca nella funzione che gli viene richiesta. Il complimento che preferisco è quando il mio ruolo all’interno di un gruppo viene riconosciuto. Un batterista è un musicista con una posizione molto difficile: è sempre in primo piano, e se sbaglia si sente subito.

Humair

Dopo sessant’anni di carriera è quasi superfluo parlare di influenze. Però, rileggendo alcune sue vecchie interviste, i vari Sid Catlett, Zutty Singleton, Baby Dodds compaiono spesso e volentieri. Non le spiace che non se ne parli quasi più?
Molto, una grave mancanza. Prendiamo gli assolo di Dodds registrati in «Talking And Drum Solos». Sono fatti con niente: grancassa, tamburo, woodblock e poco altro. Sono di una semplicità sbalorditiva eppure contengono tutto: fraseggio, feeling, senso del ritmo. In Catlett, ad esempio, trovo tutta la modernità dei batteristi a venire. Per me sono le basi, un passato che rivendico con orgoglio ancora oggi. E allo stesso tempo, se un belga non avesse inventato il sassofono non ci sarebbero stati i vari Dexter Gordon, Sonny Rollins, John Coltrane. Il jazz è un mélange universale, una spugna che assorbe di continuo. Nel mio piccolo: se ascolto il concerto per violino di Čajkovskij, magari prima di salire sul palco, so che in qualche modo influenzerà il mio modo di suonare. Anch’io agisco come una spugna ma sempre con un profondo rispetto nei confronti di quest’arte. Quando si parla di originalità, modernità, senso del rischio, deve essere fatto con attenzione. Cerco di essere più chiaro: Louis Armstrong e Sonny Rollins sono la stessa storia. Il free jazz? Armstrong era più libero di tanti musicisti free. Anche quando suonava il brano più banale o commerciale era sempre inventivo, melodico, ritmico, libero, svincolato da schemi. Ho frequentato e suonato con diversi musicisti del movimento free, che qualcuno, ancora oggi, si ostina a considerare dei giganti di questa musica. In realtà suonavano sempre le stesse cose, potevi premeditare tutte le loro azioni. Prendete Stéphane Grappelli. Suonava un numero ristretto di brani che però conosceva alla perfezione, aiutato dal fatto che era anche pianista. Sono stato al suo fianco moltissime volte e non gli ho mai sentito ripetere le stesse improvvisazioni o le stesse code. Ogni versione di Nuages era diversa dall’altra, eppure riusciva sempre a far commuovere gli tzigani presenti in sala. Questo è il jazz! Questa è la novità! Per lo spettatore il jazz deve essere un rinnovamento. Se cominciamo a fare tournée per vendere dischi o la propria immagine stiamo freschi.

Lei ha conosciuto bene sia Elvin Jones sia Coltrane…
Soprattutto Jones, eravamo davvero amici. Mi permetto una considerazione sugli americani: suonano tutti forte. Raramente ne ho incontrato qualcuno che si lamentasse del volume della batteria. Jones non fa rumore, suona jazz, e suona sempre rispetto a quello che percepisce davanti a sé. Lui e Coltrane avanzavano nello stesso modo, erano raggi di una ruota che girava, girava e generava energia. Per settimane li ho ascoltati dal vivo all’Half Note di New York, suonavano dietro il bar. Ricordo che ci andavamo dopo aver mangiato assieme. I set duravano un’ora e passa ed erano sempre composti da non più di tre brani. Arrivavi a fine concerto con la netta impressione che Jones e Coltrane avessero ancora energie da spendere. Era questa la loro forza! Non ho mai visto Jones bucare una pelle! Mai! E sa perché? Perché aveva una vera souplesse di colpo e volume, come un pugile, un Marvin Hagler, per esempio. Picchia duro ma possiede anche un’incredibile leggerezza, ha la capacità di controllare la forza. Anche una buona articolazione gioca in favore della forza. E il gesto deve essere bello, un buon batterista deve avere una bella gestualità.

Qualche parola su Modern Art, trio (e disco eponimo) completato da Vincent Lê Quang e Stéphane Kerecki.
Per me questo è un vrai projet, del commercio salutare, l’unico che noi musicisti possiamo permetterci di fare. «Modern Art» è un libro-disco che comprende un testo scritto da me e un altro di Olivier Cena. I brani non sono omaggi ma dediche a pittori che hanno avuto rapporti col jazz. Troviamo Jackson Pollock, un amico come Alan Davie e poi Yves Klein, un artista totale: scrissi le musiche di alcuni film-documentario a lui dedicati. Larry Rivers, con cui ho suonato, amico di Zoot Sims e Al Cohn, e vero maestro della Pop Art americana. Pierre Alechinsky, assiduo frequentatore di musicisti e anch’egli musicista. Disegnò la copertina di «Dejarme Solo!» di Michel Portal. Cy Twombly, un ispiratore. Comprai un suo quadro nel 1964. Il poco conosciuto Bram Van Velde, artista olandese cui Jeanneau dedicò un brano in anni non sospetti. Jim Dine per i suoi rapporti con la Beat Generation o il francese Sam Szafran, presenza costante alle serate di Saint-Germain de Près. Quando salgo sul palco col trio sono contento: Vincent e Stéphan sono musicisti disponibili, creativi, educati, responsabili, che non parlano solo di soldi. Cosa chiedere di meglio?

(estratto dell’intervista a Daniel Humair di Luca Civelli, da Musica Jazz di maggio 2018)

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Bruno Chevillon

Bruno Chevillon

Al tempo stesso musicista e artista visivo, ascoltatore e lettore, improvvisatore (jazz e non) e performer di classica contemporanea, contrabbassista e – di recente –anche bassista elettrico di matrice noise, Chevillon vive la musica come terreno di incontro-scontro tra molteplici identità e linguaggi artistici.

Forse il suo tratto più originale risiede nella sua capacità di tradurre l’immagine in suono, la fotografia e la pittura in musica e viceversa. Di porsi, in sostanza, come traduttore intersemiotico. Chevillon non pensa tuttavia la musica, o l’oggetto musicale, come l’illustrazione di un oggetto plastico ma come l’oggetto plastico in sé: «Quando sviluppo un’idea musicale nella quale penso di essere una linea, non produco specificamente un suono “diritto” perché quella sarebbe l’illustrazione di una linea. No, divento io stesso una linea! È una concezione che cerco spesso di trasmettere ai miei studenti, perché riuscire ad avere un’immagine mentale significa poter parlare a tutti. E se, per esempio, chedo a dieci studenti di sviluppare l’idea di linea, avrò dieci linee diverse ma anche dieci modi di pensare qualcosa che tutti sanno benissimo cos’è».

Altro riferimento importante nel ricco e variegato universo del bassista francese è il teatro. Secondo Chevillon, «molti musicisti hanno un cattivo rapporto con il loro corpo e questo rappresenta un problema, perchè certi suoni non possono esistere senza che il corpo agisca in un certo modo, senza che vi sia un gesto musicale». Si tratta sempre di un problema di linguaggio, di specifica capacità di scrittura.

Il rapporto con il teatro risulta particolarmente interessante. oltre che per le implicazioni che riguardano la dimensione corporea del performer, anche per l’idea di dialogo e di scambio e più in generale di dialogismo.

In Caravaggio, il quartetto con Eric Echampard, Benjamin De La Fuente e Samuel Sighicelli, Chevillon suona sia il basso elettrico (un Precision degli anni Sessanta appartenuto in passato a Henri Texier) sia il contrabbasso. Giusto sottolineare come il sound del gruppo rimandi a certa musica contemporanea nel suo approccio alle tessiture, agli spazi e alle prospettive, ma anche – in senso più ampio – alla musica elettronica, all’hardcore e a certo pop. Fin dal nome, il quartetto si richiama a un’idea di violenza, di spazio poetico e di contrasti; oltre ad aver pubblicato tre album di grande interesse, nel 2014 ha inciso le musiche per il film L’amour est un crime parfait, diretto da Arnaud e Jean-Marie Larrieu. Caravaggio è, secondo le sue stesse parole, lo spazio in cui Chevillon si sente più a suo agio e può coltivare tante sue passioni: il rock, la musica contemporanea, l’elettronica, il noise. E i membri del gruppo lo hanno spinto ad altri progetti come Spirale, un concerto-installazione per solo contrabbasso a cura di Sighicelli, e Folk Blues Remains assieme a De La Fuente. Sul secondo lavoro del quartetto, intitolato «#2», il suono è assai diretto e potente. Nel primo brano, Polaroid, si alternano paesaggi friselliani (frutto di un bel lavoro di armonici distorti e pedale di Chevillon al basso sotto un arpeggio ipnotico di chitarra), a momenti pinkfloydiani e a ritmi che sembrano richiamare le colonne sonore dei polizieschi anni Settanta. Dennis Hopper Platz mette in scena atmosfere alla David Lynch alternandole a momenti di spoken word in italiano di grande fascino. When Will You Be Angelic? presenta uno strepitoso crescendo sonoro e un impressionante lavoro ritmico, per certi versi labirintico, di basso e batteria. Si torna invece ai soundscapes con Beth’s Vibration, dove Chevillon disegna ampie figure dub per poi lasciare spazio a un gioco d’arco che sembra voler simulare la voce umana fondendosi perfettamente col batterismo post-rock di Echampard. Medusa è caratterizzato da un magistrale lavoro di P-Bass in saturazione che interagisce col complesso lavoro percussivo di Echampard. Chiude il disco Profondo, brano in cui il quartetto gioca con ampi spazi e pause costruendo trame solo in apparenza risolutive, fino alla scena sonora finale che richiama con forza il lavoro del gruppo chicagoano di post-rock Tortoise.

Chevillon è dunque un musicista straordinario, in grado di muoversi tra linguaggi artistici diversi, tra jazz, scena improvvisata e musica contemporanea, tra basso elettrico e contrabbasso, tra spazi e suggestioni di grande diversità; il tutto con un’energia, un’urgenza straordinaria che rimanda a uno dei suoi maestri più importanti e incisivi: Pier Paolo Pasolini. Per Chevillon, Pasolini è da sempre un riferimento di estrema importanza, un personaggio emblematico che, attraverso i suoi scritti, il suo cinema e la sua poesia può rappresentare una struttura molto complessa e interessante per un artista. In sostanza, Chevillon trova in Pasolini un maestro capace di un plurilinguismo di linguaggi letterari e artistici, un esempio da tradurre in musica.

Potremmo quindi concludere facendo notare come sia proprio la musica di Chevillon a suscitarci tutta una serie di domande sul significato e la fisionomia del jazz e dell’improvvisazione di oggi: la musica di un performer dei nostri tempi in grado di fare del suo strumento uno spazio dialogico e accogliente che favorisca l’incontro, lo scontro e la ridefinizione delle diverse forme d’arte.

(estratto dell’articolo: “Bruno Chevillon – Caravaggio, Pasolini, Dylan Thomas e molto altro” di Piepaolo Martino, da Musica Jazz di maggio 2018)

( foto di Jean-Baptiste Millot e Olivier Roller)