Cristiano Calcagnile Multikulti

di Luca Civelli

365
Cristiano Calcagnile (foto di Valentina Zanzi)
Cristiano Calcagnile (foto di Valentina Zanzi)

A colloquio con il batterista milanese Cristiano Calcagnile in occasione dell’uscita del nuovo cd del suo Multikulti, che si è allargato a nonetto con l’arrivo di Alberto Braida

Cristiano, sei sempre più leader e sempre meno sideman. È stata una decisione rapida o maturata nel tempo?
Un po’ tutte e due. La voglia di proporre i miei gruppi c’è sempre stata, almeno sin dai tempi di Chant. Magari non erano gruppi a nome mio, perché ho sempre creduto alla dimensione collettiva, come nel caso di Multikulti. Dopodiché, nonostante questa pulsione ci sia sempre stata, ho dovuto fare di necessità virtù e arrabattarmi per vivere di musica. Fortuna vuole che a un certo punto il lavoro era diventato importante, mi era molto difficile occuparmi d’altro, concretizzare i miei progetti come avrei voluto. Il processo negli ultimi tempi si è però invertito; ho sentito l’esigenza di lavorare su cose mie. E da quel momento è subentrata una mole di lavoro, stress, ansia di molto superiore a quella che avevo prima. Quindi, per riassumere, se da un lato l’idea di gestire i miei gruppi è stato un processo lento e graduale, passato in sordina, dall’altro a un certo punto ho dovuto prendere una decisione netta, dovuta anche alla delusione delle esperienze vissute. Per quanto si possa suonare a buoni o alti livelli per tanti anni e per tante persone, una volta che un gruppo finisce non rimane più molto, neanche dei rapporti umani. Resta la memoria. Oggi ci dobbiamo confrontare col al mercato in una situazione generale trasformata, molto diversa rispetto ad anni fa. Si può essere «conosciuti», ma se proponi qualcosa di diverso è come ricominciare tutto da capo, e il sostegno è quasi nullo. In più in Italia, credo più che altrove, si ha a che fare con un sistema molto calcificato: portare in giro i propri gruppi equivale a spaccare le pietre.

Essere batterista non ti facilita le cose…
In Italia siamo spesso e volentieri considerati dei gregari, in secondo piano rispetto agli strumentisti che hanno una «voce». Dipende da ragioni storiche e culturali: dal rapporto con la canzone, il bel canto, la melodia, con la voce intesa come strumento. Quanti sono i batteristi conosciuti in Italia? Tullio de Piscopo e forse Roberto Gatto. Gli altri vivono nell’underground, dove essere conosciuti significa che il tuo nome circola fra qualche addetto al settore. Mi sembra che all’estero il batterista sia percepito in maniera diversa. Qui da noi si sbatte contro un muro di gomma, avere «voce in capitolo» suonando la batteria è molto complicato. Peccato, perché ci sono tanti leader batteristi, persone di cultura, con una grande conoscenza della musica.

Multikulti (foto di Maurizio Zorzi)
Multikulti (foto di Maurizio Zorzi)

Potremmo dire che in questa lunga fase di passaggio da sideman a leader, il primo disco su Don Cherry sia stato un passo decisivo, quasi uno spartiacque?
«Multikulti Cherry On» ha certamente rappresentato qualcosa, almeno da un punto di vista personale e psicologico. Ho costruito il gruppo per divertimento, con una certa leggerezza di approccio, pensando che si sarebbe esaurito nel giro di poco, e alla fine ci siamo ritrovati sotto la luce dei riflettori, anche se, sia chiaro, il successo ottenuto non sarà mai direttamente proporzionale alle energie spese per un progetto del genere. Però, se considero che abbiamo fatto tutto da soli, senza né fondi né agente né manager; se considero che eravamo in otto, e che siamo riusciti a farci notare, a entrare nelle classifiche del Top Jazz e così via, beh, allora devo ammettere che sono rimasto sorpreso, al punto da poter sperare – mi riallaccio alla risposta precedente – di entrare a far parte di un sistema in grado di comprenderti.

Ed è stato così?
Si è fagocitati a grande velocità: ci sei per un anno perché hai fatto colpo, ma se non continui a foraggiare pesantemente il tuo gruppo sparisci in breve tempo. E per foraggiare intendo compiere un persistente sforzo economico che purtroppo non è sempre possibile. Questo argomento è diventato centrale perché, a mio parere, coinvolge direttamente il percorso che si decide di intraprendere. Il fatto che il sostegno alla musica, all’arte in generale, sia diventato così difficile, ristretto esclusivamente a progetti di successo, fa sì che diventi sempre più difficile pensare a progetti diversi, fuori dall’ambito del successo. Tutti vanno dove le cose funzionano meglio, il che comporta non solo una marginalizzazione delle estetiche «altre» ma anche un progressivo schiacciamento di quelle stesse estetiche. Rimanere fedeli al proprio modo di lavorare implica un’auto-marginalizzazione. Tutte le cosiddette avanguardie si sono ritrovate in questa situazione: le dinamiche sono sempre le stesse ma ho l’impressione che in passato circolasse più linfa vitale, mentre oggi ci muoviamo su terreni aridissimi.

Cristiano Calcagnile (foto di Valentina Zanzi)
Cristiano Calcagnile (foto di Valentina Zanzi)

Mancano i mecenati.
Certo, e mi vien da dire anche un’organizzazione politica e sociale. Ma ci vorrebbe una politica fatta di competenze, in grado di comprendere tutto ciò, perché si sa quanto la politica sia in grado di condizionare il gusto comune. In generale, la ricerca o i tentativi di farla non sono più un valore o lo sono sempre meno. L’arte ha bisogno di tempo, anche di momenti morti, che sono tutti aspetti non contemplati dal mercato. Io, invece, difendo la possibilità di potersi prendere del tempo. Molti di quelli che vogliono portare avanti un certo tipo di musica possono farlo solo se hanno qualche altro mezzo di sostentamento.

Ogni tanto tu giri anche in Europa. Hai l’impressione che all’estero la situazione sia la stessa?
Oramai è un discorso globale. Il livello di attenzione alla ricerca si è abbassato ovunque. Però ci sono dei paesi come Germania, Francia, Olanda, anche la Svizzera, in cui, nonostante tutto, c’è ancora un po’ di linfa, vedremo quanto durerà. Ad esempio, il Goethe-Institut funziona ancora molto bene, si fa ancora carico di presentare cose nuove; un «fenomeno» come Christian Lillinger, batterista e compositore tedesco, in Italia non sarebbe possibile, è come se qui da noi fossero famosi i vari Edoardo Marraffa, Fabrizio Puglisi o anche altri, musicisti che stanno alla larga dal puro commercio e intendono il jazz come qualcosa in continua evoluzione che attinge da riferimenti che non sono per forza mainstream.

In questo quadro obiettivo ma di certo non idilliaco, Caligola ha pubblicato da poco «The Gift Of Togetherness», nuovo disco di Multikulti. Ma facciamo un salto indietro di qualche anno: perché Cherry?
Non ho mai fatto mistero che l’idea fu di Paolo Botti. Qualche anno fa, insieme ad Alberto Tacchini e Tito Mangialajo Rantzer, Paolo cominciò a organizzare dei concerti alla Scighera, un circolo ARCI di Milano. Erano delle serate a tema, una al mese. La formula prese piede e cominciò a richiamare del pubblico. Cominciai a frequentare le serate il secondo anno, grazie ad Alberto. Quando mi toccò proporre un tema, Paolo mi suggerì Cherry. L’idea nacque così. Ironia della sorte, Paolo non poté partecipare alla serata e non ci fu neppure Gabriele Mitelli. Il primo concerto fu dunque in sestetto. C’erano Gabriele Evangelista, con cui avevo già cominciato a lavorare in trio, Pasquale Mirra, Nino Locatelli, che in un certo senso sostituiva Mitelli, Massimo Falascone e Dudu Kouaté, fino ad allora, per me, uno sconosciuto. Credo di non essere presuntuoso nel dire che quel Multikulti, allo stato germinale, sia stato significativo per la scena che si stava ricompattando in quegli anni. La Scighera è stata importante, e forse lo è ancora adesso, anche se le cose sono un po’ cambiate, perché ha permesso di riunire persone che non si vedevano o frequentavano da tanti anni. Si creò una specie di piccolo collettivo. Non c’erano obblighi: veniva chi poteva e aveva voglia di provare e suonare. Erano serate stimolanti perché vi partecipavano musicisti provenienti da ambiti diversi. Partendo dalla Scighera, Multikulti è diventato un progetto conosciuto a livello nazionale, che penso abbia stimolato musicisti come Falascone e Locatelli a creare i propri grands ensembles − Paolo, invece, ha sempre avuto i suoi gruppi. A volte i momenti in cui succede qualcosa sono brevi ma intensi, e in quel periodo ho avuto la sensazione che alla Scighera stesse accadendo qualcosa.

Cristiano Calcagnile «Multikulti Cherry On»
Cristiano Calcagnile «Multikulti Cherry On»

Quale fu il primo passo dopo il suggerimento di Botti?
Ho sposato l’idea con grande entusiasmo perché sapevo che mi avrebbe permesso di conoscere meglio Cherry. In definitiva, Multikulti mi ha permesso di arricchirmi come persona e musicista. Di Cherry non esistono trascrizioni; anzi, Cherry è tutto da trascrivere. Se trovi qualche spartito lo si deve a qualche musicista che si è preso la briga di trascrivere. Quindi andava fatta una ricerca. Ho cominciato dai dischi che avevo a casa, altri me li sono fatti prestare, ma lo strumento più utile è stato YouTube: più che i dischi, mi sono ritrovato a trascrivere dei concerti interi.

E dopo la ricerca?
Non volevo limitarmi a interpretare la musica di Cherry, avevo un’altra ambizione: riappropriarmi − e fare in modo che il gruppo si riappropriasse – di una certa idea di musica, ovvero di quella dimensione in cui, dopo l’esposizione dei temi, l’improvvisazione accade davvero. Ma per farla accadere come voglio, bisogna che si instauri un elevato livello di complicità tra i membri del gruppo, una complicità veicolata dai rapporti umani. Mi intrigava il tentativo di riscostruire una specie di famiglia e che questo aspetto «familiare» emergesse dalla musica. È stato un tentativo, non so se riuscito o meno, che mi ha esposto anche a qualche critica. Qualcun altro, invece, ha parlato di me come di un «non-leader». Ritengo di aver dato un’impronta a Multikulti; cercavo la musica nei musicisti, non abilità tecniche al servizio di un leader. In una delle suite, alcuni musicisti lanciano un determinato tema, ma non è stabilito dove come e quando. Si assumono le responsabilità dei propri gesti. Ho imparato questo modo di procedere durante le esperienze avute a Bologna con Tristan Honsinger, un musicista cui credo tutta la scena bolognese debba molto. In Tristan si lavora sulla musica senza decisioni prese a priori, si entra ed esce in un flusso di possibilità continuo, inteso quasi come una narrazione. Tutto può accadere e ogni cosa può venire stravolta. Ma per suonare in questo modo bisogna possedere a pieno il materiale, viverlo, saperlo riconoscere al volo. Un tema può apparire all’improvviso in un arrangiamento del tutto estemporaneo. Mi piace moltissimo questo modo di lavorare.

Cristiano Calcagnile Multikulti Ensemble  «The Gift of Togetherness»
Cristiano Calcagnile Multikulti Ensemble «The Gift of Togetherness»

Ritrovi questi aspetti in Cherry?
In «Complete Communion», per esempio, ci sono zone lasciate all’improvvisazione collettiva e altre in cui il focus sono i temi «chiamati» dai musicisti. Mi sono fatto l’idea che questi sistemi di codici interni, molto avanzati, si sono sviluppati a più livelli nel jazz e in epoche diverse a seconda dei musicisti. Forse anche Miles ne faceva uso. Più che il risultato finale, con Multikulti mi interessava il metodo di lavoro: proviamo a essere liberi, facciamo in modo che tutti siano responsabili di ciò che avviene sul palco o in studio.

Come mai hai deciso di arrangiare molti brani?
Gli arrangiamenti sono delle concessioni che mi sono autorizzato. Anche qui ho qualche dubbio sul mio operato: non so se ho fatto bene oppure male. Per esempio, nel suo lavoro su Steve Lacy («Prayer», We Insist!), Nino Locatelli ha per certi versi un approccio molto simile al mio e per altri radicalmente diverso. Ha trascritto tutte le voci ma non apporta nuovi arrangiamenti e l’improvvisazione è totalmente libera. Io ho preferito ribaltare alcuni brani, come nel caso di Walk To The Mountain. Lo trascrissi dal web pensando che fosse di Cherry, invece scoprii che si trattava di un brano di Peter Apfelbaum, collaboratore di Cherry alla fine degli anni Ottanta. La versione originale è molto elettrica, mentre con Multikulti Walk To The Mountain diventa acustico, sembra quasi eseguito da un ensemble da camera, con tutte le differenze del caso. Direi che gli arrangiamenti ci sono serviti a esaltare alcuni aspetti delle composizioni scelte. Non avevamo la pretesa di fare un lavoro innovativo o contemporaneo, ma certamente qualcosa che sentissimo al cento per cento nostro.

Dalle recensioni sui vostri concerti si direbbe che il palco sia il vostro habitat naturale…
C’è una cosa che mi riempie di gioia con questo gruppo, ed è vedere la gente che si diverte, che dopo i concerti viene a dirci che ha vissuto una bella esperienza, che ha percepito una comunione di intenti. Sul palco siamo in otto − anzi, nove con l’aggiunta di Alberto Braida − che vivono un’esperienza molto forte e contagiosa. Multikulti è un gruppo che ti fa sentire bene, me lo hanno fatto notare in molti, da Stefano Zenni a Enrico Bettinello, che scrisse delle belle parole su di noi. Nonostante gli arrangiamenti, le differenze con gli originali, tutto quello che vuoi, il pubblico ci dice sempre di aver vissuto un’esperienza cangiante ed emozionante. Multikulti non è un ricordo ma una rappresentazione reale di quel che siamo.

MultiKulti (foto di Alessandro Achilli)
MultiKulti (foto di Alessandro Achilli)

In questi anni di lavoro su Cherry, che idea ti sei fatto di lui? Se ci pensi bene, è stato un musicista criticato per alcune scelte e mal interpretato. Oggi anche chi gli rende omaggio gli appiccica addosso etichette come etno-jazz o world music, etichette di cui probabilmente Cherry si sarebbe infischiato alla grande. Forse era solo un jazzista con una visione molto ampia della musica. Che ne pensi?
Sono convinto anch’io che Cherry non si sia posto il problema di fare world music o altro, anche perché il jazz, se mi passi un’espressione milanese, è già quella roba lì: un’arte sincretica, nata da un miscuglio, una musica aperta, non chiusa. Il jazz è legato alle individualità, alla possibilità di dire la propria. Se il messaggio di un gruppo o musicista è valido e godrà di una certa risonanza diventerà un messaggio per molti, altrimenti resterà una perla incastonata da qualche parte, che forse un giorno o l’altro qualcuno riscoprirà. Io inserisco Cherry in quella schiera di musicisti che considera il jazz come una musica in continua evoluzione, che non si suona addosso, ma che deve continuamente cercare, alimentarsi di possibilità. A differenza di molti che hanno bisogno di paletti conficcati nel terreno, Cherry navigava in mezzo al mare, libero di prendere qualsiasi direzione. Non possiamo ridurre tutto a modelli speculativi e filosofici, ci sono anche bisogni, intuizioni che sorgono all’improvviso, e Cherry ne ha avuti parecchi. Come altri musicisti, ha tentato di conoscere, di accomunare energie, idee, suoni. Inoltre, ti dico una cosa che fa a cazzotti con molti musicisti, credo che avesse un approccio spirituale. Mettiamola così: per me aveva bisogno di suonare per qualcosa, non solo per la musica. Forse per questo si è avvicinato alle musiche africane e indiane, e ha anche cercato, a mio avviso, una dimensione meditativa e spirituale nel minimalismo. Se guardi la sua carriera, trovi davvero di tutto. Cherry è stato in prima linea nell’avanguardia, ha suonato con Gato Barbieri, Jon Appleton; dalla collaborazione con Karl Berger è uscita musica meravigliosa. Per me era importante riconfigurare alcuni momenti della sua biografia, non attraverso un disco cronologico, ma in maniera aleatoria. Nel corso dei due dischi, che considero un tutt’uno, tocchiamo le collaborazioni con Ornette, le cose più africane, quelle etniche, anche il trio con Okay Temiz e Johnny Dyani, che si allaccia direttamente al Sudafrica. Cherry è uno dei pochissimi americani intrufolatisi in quel filone, proprio come Steve Lacy.

Dopo due dischi, pensi di proseguire con Cherry oppure hai intenzione di cambiare strada?
Non so bene ancora. Mi piacerebbe che Multikulti si muovesse verso qualcosa di simile agli ensemble di Roscoe Michell… Vedremo che cosa succederà.

Luca Civelli

[da Musica Jazz, agosto 2019]