Chick Corea: con Patitucci e Weckl è un ritorno al futuro

di Enzo Boddi - foto di Toshi Sakurai

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Chick Corea Akoustic Band

Chick Corea, il vulcanico pianista italo-americano è tornato a luglio in Italia per un breve giro di concerti (Roma, Bollate, Firenze) mettendo di nuovo assieme quell’Akoustic Band che tanto successo ebbe nei primi anni Novanta.

Il tour europeo con l’Akoustic Band intende ravvivare l’esperienza del disco che avevate inciso nel 1989?
John, Dave ed io abbiamo collaborato a vari progetti nel corso degli anni. Suonare insieme ci diverte sempre moltissimo, ma certamente ogni volta si tratta di una nuova esperienza. Specialmente adesso, il fatto di suonare nel contesto di un trio acustico ci dà una sensazione di grande freschezza.

Dopo così tanti anni di collaborazione, l’interazione fra lei, John Patitucci e Dave Weckl risulta empatica, sia in quel contesto sia con la Elektric Band. L’Akoustic Band pubblicherà quindi un nuovo album?
Sì! Abbiamo registrato un doppio cd tratto da un’esibizione dal vivo che avevamo tenuto lo scorso gennaio. Contiamo di averlo pronto da proporre durante il nostro prossimo tour di luglio.

Per lei il trio sembra aver rappresentato l’ambito ideale dove esprimere pienamente le sue idee e la sua creatività in termini di interplay e dinamiche, a partire dal seminale «Now He Sings, Now He Sobs». Come valuta le sue passate esperienze in questo particolare contesto?
Nel jazz il trio costituito da piano, contrabbasso e batteria è la formazione classica, simile alla strumentazione standard del quartetto d’archi nella musica classica da camera. Così unirsi per suonare in un tale contesto diventa un fatto molto intimo, che praticamente consente qualsiasi tipo di creazione musicale.

Incisioni come «ARC» e «The Song Of Singing» possono essere considerate innovative, rivoluzionarie. A quel tempo stava ricercando forme più libere?
In occasione di quelle sedute Dave Holland, Barry Altschul ed io eravamo in uno stato di profonda sperimentazione. Aveva un che di liberatorio suonare in maniera improvvisata e con pochissime strutture, scegliendo di fare in modo che la forma musicale crescesse spontaneamente.

Chick Corea Akoustic Band 1989

A distanza di così tanto tempo, come giudica la sua esperienza con Circle?
Anche in quel caso, si trattò di un periodo molto creativo ed esplorativo. Anthony Braxton si unì al trio, che in realtà originariamente era nato come un duo tra Dave Holland e me. Con Dave avevamo già messo alla prova la nostra immaginazione suonando assieme nel quintetto di Miles Davis, con Wayne Shorter e Jack DeJohnette. Scomporre la forma dei brani ed evaderne liberamente era (ed è tuttora) un grande gioco musicale.

A proposito di libertà, in che misura la sua collaborazione con Miles Davis l’aveva spinta a ricercare nuove direzioni in musica? Sotto questo aspetto, lavori come «Bitches Brew», «Live At Fillmore», «Isle Of Wight» sono piuttosto significativi.
Miles possedeva una mente molto ingegnosa e creativa. Appariva sempre aperto ed interessato a tutto ciò che gli altri musicisti mettevano in gioco. Era un musicista molto cooperativo con cui fare musica, molto interattivo e reattivo al tempo stesso. Così facendo, dava un grande esempio di come si poteva fare affidamento su se stessi e sugli altri allo scopo di esplorare aree mai sperimentate prima. A volte era solito dire «Suona quello che non sai». È un grande gioco che permette all’immaginazione di prosperare ed essere sfruttata ai massimi livelli.

Come anche nel caso di tanti altri gruppi, la musica dei Return o Forever fu etichettata in molti modi differenti: jazz-rock, crossover, fusion. Qual è la sua opinione al riguardo? Ha qualche senso parlare di fusion oggi?
Be’, si dovrebbe parlare di qualsiasi cosa ci interessi. Non ho mai pensato che l’etichetta
fusion fosse molto adatta a indicare la musica dei Return To Forever. Se la dovessi descrivere oggi, potrei magari chiamarla orchestral hard jazz-rock!

Può dirci qualcosa circa il gruppo che ha recentemente formato con Steve Gadd?
Quella è stata una grande esperienza, per la quale ho scritto parecchia nuova musica. Abbiamo scelto alcuni eccellenti musicisti come membri del gruppo e ci siamo divertiti un sacco durante l’incisione e il tour. Steve ed io abbiamo sempre avuto un rapporto molto speciale, sia come amici sia come musicisti. Entriamo sempre in sintonia all’istante. Inoltre amo il modo in cui lui costruisce la parte ritmica attorno alle mie composizioni. La nostra è una collaborazione fantastica.

Gli elementi latini nella sua musica derivano direttamente dalle sue passate esperienze con Willie Bobo e Mongo Santamaria, oppure c’è anche qualche influenza del retroterra italiano della sua famiglia?
È difficile rintracciare le influenze che mi caratterizzano, soprattutto perché non smetto mai di imparare cose nuove da musicisti diversi e affronto molti differenti generi di musica. Certamente Mongo e Willie Bobo sono stati fonti di grande ispirazione, così come Paco De Lucia e i miei amici spagnoli specialisti di flamenco. Le radici della mia famiglia sono per l’appunto italiane: mio padre era il primogenito di una famiglia di immigrati italiani provenienti dalla zona di Catanzaro. Mio nonno suonava un po’ il mandolino, ma mio padre era un trombettista davvero bravo, che amava Miles e Bird.

Qual è la sua opinione riguardo all’attuale scena jazzistica? Il jazz è veramente diventato un linguaggio universale in grado di assorbire elementi da ogni cultura?
Il jazz è dovunque e questa è veramente una gran cosa, perché è un autentico linguaggio
universale, come del resto tutta la musica. Tuttavia, lo spirito dell’improvvisazione e della libertà di combinare forme in qualsiasi modo sono i fattori che attirano e stimolano i creatori verso la musica jazz. Il mondo ha bisogno di altri artisti creativi. I musicisti di jazz, al pari degli artisti, stanno facendo del loro meglio per calmare le acque e migliorare la qualità della vita.

Enzo Boddi

[da Musica Jazz, luglio 2018]