CATHERINE RUSSELL AD «APERITIVO IN CONCERTO»

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Teatro Manzoni, Milano. Domenica 13 dicembre 2015

Un concerto come quello di Catherine Russell si presta – com’era facilmente intuibile – a diverse chiavi di lettura. La prima, e forse la più immediata, riguarda la grande piacevolezza della proposta: un repertorio in larga parte anni Trenta, con qualche incursione in anni immediatamente precedenti o posteriori, e rivisitato con la massima cura dei dettagli. Un gruppo impeccabile, di grande affiatamento, guidato con mano salda e sapiente dal notevole chitarrista Matt Munisteri; arrangiamenti a orologeria, minuziosamente elaborati sulle caratteristiche dei singoli musicisti (tutti eccellenti anche se non di grande originalità, ma non era questo l’obiettivo); una cantante vigorosa, di limitata estensione vocale ma dall’intonazione impeccabile e dal porgere sincero e sentito. Per passare un paio d’ore di autentico buonumore, bastava e forse avanzava. Un aperitivo perfetto, insomma.

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Detto questo, e riscontrato il giusto e meritato successo, è doveroso porsi qualche domanda sul significato dell’operazione. Che non si tratti di revival è abbastanza evidente: questa è la tradizione familiare e culturale di Catherine Russell (figlia dello storico caporchestra e arrangiatore panamense Luis, vecchio sodale di Louis Armstrong, e della multistrumentista Carline Ray, importante – seppur misconosciuta – donna del jazz). Riproporla in questo modo non ha solo una valenza affettiva e sentimentale ma ne rende ancor più evidente quel «filo rosso» di cui spesso ama parlare Franco D’Andrea: una storia ancora viva e pulsante, non certo il togliere uno strato di polvere a vecchi pezzi da museo. Può essere comunque una strada impervia, costellata di trappole e ad alta scivolosità: il pericolo di cadere nella macchietta è spesso dietro l’angolo, l’insidia della caduta di gusto sempre in agguato, ma per fortuna non ci siamo mai andati vicini. La sera precedente il concerto, il bravo e giovanissimo contrabbassista Tal Ronen ci raccontava come uno dei tratti salienti di questo gruppo risieda nel tentativo di mettere assieme, senza eccessivo divario, forma e sostanza: agire all’interno di un linguaggio ormai storicizzato ma sempre cercando di evitare il maleficio dell’imbalsamazione.

Ecco, questo problema a volte fa capolino. Non nel repertorio, accuratamente studiato per tenersi lontano dai soliti dieci-quindici standard che conoscono anche i sassi (brani del padre Luis, di Johnny Otis e Preston Love, Ivory Joe Hunter, Ida Cox, la rara Harlem On My Mind di Irving Berlin, My Monday Date di Earl Hines e così via non si ascoltano certo tutti i giorni) ma nelle maglie un po’ troppo strette degli arrangiamenti – quasi nessuna esecuzione ha superato i canonici tre minuti dei vecchi 78 giri – dai quali, più di una volta, ci si aspettava veder sbocciare qualche assolo un po’ più esteso, più dilatato, proprio come negli after hours dell’epoca più volte rievocati dalla cantante. Tra l’altro, i musicisti erano di un certo pregio: Jon-Erik Kellso è da tempo tra i migliori trombettisti in questo ambito, così come il clarinettista e sassofonista Mark Lopeman sa ricordare, secondo la necessità, non pochi grandi del passato – soprattutto Lucky Thompson, il cui sound al tenore riproduce con efficace ma non cieca aderenza – mentre il veterano pianista Mark Shane è cristallino e funzionale: tutti solidi professionisti, insomma, che hanno fatto benissimo il loro mestiere e dai quali non c’era certo da attendersi alcuna deriva postmoderna alla Steven Bernstein o alla Don Byron (confessiamo però di averci pensato, almeno quando la musica si faceva un po’ troppo ingessata…).

Per quanto riguarda Catherine Russell, la signora ha una bella tempra e una buona presenza scenica: non è l’ultima arrivata e si sente. Mai un attacco sbagliato, mai un difetto di intonazione, mai un tentennamento. Grande esperienza – il suo impegnativo passato di corista ne offre ampia prova – e la saggezza di evitare infausti confronti con modelli ingombranti e fin troppo noti (non a caso, l’omaggio a Billie Holiday di You’re My Thrill è stato il momento più debole), collocandosi con intelligenza e abilità nella linea Esther Phillips-Dinah Washington, il che non è comunque poco. Avercene, come diceva quel tale.

Luca Conti