Cassero Jazz – Castel San Pietro Terme, 13–15 aprile 2018
Enrico Rava, sempre giovane nello spirito e con un flicorno nuovo di zecca, non evita le occasioni per mettersi costantemente in gioco, cercando nuove collaborazioni a cui apportare la propria esperienza e il proprio mondo poetico. Nell’ultimo anno ha avviato un sodalizio con la pianista Makiko Hirabayashi, giapponese ma residente a Copenaghen. È prossima l’incisione di un cd in quartetto per la Ecm, ma il rapporto in duo si muove su coordinate diverse e più azzardate. Il repertorio si basa prevalentemente su temi del trombettista, storici o recenti, più o meno noti. Cosa di meglio per inventare storie da raccontare al pubblico, accompagnandolo per mano? Ecco che nel primo brano le linee melodiche galleggiano in un percorso un po’ reticente e frammentario, fino a far emergere il tema in evidenza solo nel finale. Al contrario, in altri brani scattanti e spiritati il motivo viene subito esposto all’unisono con una mirabile sovrapposizione della voce del flicorno, pastosa anche se dinamica, e della diteggiatura puntigliosa e allusiva della pianista. Il percorso procede con omaggi alla musica brasiliana e suggestioni autobiografiche, fra poesia e ironia, fino a concludersi con una malinconica versione di My Funny Valentine.
Al Cassero Rava ha dimostrato di trovarsi perfettamente a proprio agio in questa dimensione colloquiale, in questo rapporto disteso e paritario, quasi come adagiato in un accogliente guscio casalingo. Quanto alla pianista, ha esibito grande versatilità e buon gusto, capace di immergersi nei meandri aperti dai temi e di dialogare, narrando proprie storie parallele e suadenti.
Va dato merito a entrambi i duetti ospitati nelle prime due serate (qui la recensione della prima serata), per aver suonato, pur essendo di recente formazione, senza l’avvallo di spartiti; il che ha aumentato la dose di rischio, richiedendo una concentrazione costante e partecipata.
Nella serata conclusiva, invece, gli spartiti erano ben presenti nel concerto del nuovo trio di John Surman, «Invisible Threads», già su disco Ecm e completato dal pianista brasiliano Nelson Ayres e dal vibrafonista newyorchese Rob Waring. Il ricorso alle partiture ha comportato una misura cameristica della performance con un preciso rispetto dei ruoli; questo soprattutto nei primi brani, su ispirazioni di carattere impressionistico e su tempi medi. Ma ben presto si sono concretizzate situazioni più estroverse e mosse, che hanno dato adito a un intreccio improvvisativo più fecondo delle voci: su composizioni di Surman, anche riesumate dagli anni Settanta, in Summer Song a firma del pianista, dai vivaci sapori popolareschi provenienti dal Centro America, in altri brani dalle strutture melodico-ritmiche ben marcate.
Ciò che è balzato sempre in evidenza è stata la ricchezza degli impasti timbrici fra i tre virtuosi strumentisti. Il sound del leader, al soprano e al clarinetto basso, risulta oggi forse più poroso, vibrante e “umano”, pur conservando l’ardito e tagliente rigore di un tempo. Ayres dispiega un pianismo elegante e solare, ma all’occorrenza corroborato da una considerevole potenza di suono negli accordi tracciati dalle due mani. Il contributo di Waring, caldo brunito e avvolgente alla marimba, dagli scintillanti riverberi al vibrafono, amalgama il tutto con un colore cangiante e un contrappunto costante ed efficace.
Libero Farnè
Fotografie di Mario Sabani