Cassero Jazz 2019 – Castel San Pietro Terme, Cassero Teatro Comunale, 29 – 31/03/2019

di Libero Farnè

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Cassero Jazz 2019 (foto di Mario Sabbatani)
Cassero Jazz 2019: il trio di Julian Lage (foto di Mario Sabbatani)

Cassero Jazz non si smentisce. Il piccolo ma combattivo festival nella provincia est di Bologna, giunto alla trentaduesima edizione e aderente al vasto palinsesto regionale di Crossroads, ha proposto tre concerti di grande interesse e diversissimi fra loro: il ritorno dell’Etnia immaginaria, l’astro nascente della chitarra jazz americana e uno dei più stimolanti gruppi dell’attualità italiana.

Il sodalizio fra Riccardo Tesi, Patrick Vaillant e Gianluigi Trovesi risale al 1994, quando per la Silex incisero e pubblicarono “Colline”. In seguito la loro frequentazione si rinnovò in varie occasioni. Oggi il collaudato trio formato da Tesi, Vaillant e il subentrato Andrea Piccioni alle percussioni ha invitato il vecchio compagno di strada bergamasco, che si è esibito solamente ai clarinetti.

Possiamo parlare ancora di “Etnia immaginaria”, come si legge sul programma? Certo è questa la matrice della formazione e della musica ascoltate a Castel San Pietro Terme: guardare alla tradizione della musica popolare delle varie culture che si affacciano al Mediterraneo, prelevare stimoli dalle varie cadenze che provengono dai Balcani… Il tutto per essere metabolizzato, intrecciato, riscritto e pronunciato con una sensibilità nuova e raffinatissima che di popolare conserva poco. Molti temi tra l’altro affondano le radici nella musica antica: due Moresche di Tesi, le danze di Trovesi, Adagetto bergamasco, Villanella… Fino a includere improbabili e ironiche contaminazioni culturali: cadenze del Sahara che si sposano forzatamente con quelle dei Caraibi, come avviene in Campanello cammellato del clarinettista.

Cassero Jazz 2019 (foto di Mario Sabbatani)
Cassero Jazz 2019: Patrick Vaillant, Gianluigi Trovesi, Riccardo Tesi e Andrea Piccioni (foto di Mario Sabbatani)

È del tutto legittimo riproporre oggi una tendenza musicale nata trenta-quaranta anni fa. Perché no? Eppure al Cassero è risultato evidente che c’era qualcosa di nuovo sotto il sole. I temi, alcuni ben noti, sono stati leggermente variati e ri-arrangiati, l’andamento dinamico si è disteso in modo più pacato, gli assiemi si sono sviluppati calibratissimi. A tale proposito sarebbe superfluo soffermarsi sul contributo dei singoli, in quanto ognuno è dotato di un’esperienza, una classe e una “signorilità” impeccabili, che però assumono un senso soprattutto in quanto messi al servizio del collettivo. In definitiva, l’originaria ispirazione etnica è stata riproposta inevitabilmente secondo il mutato spirito dei tempi, con la consapevolezza e la decantazione proprie della rimeditazione della propria identità. Pur fra accattivanti introduzioni verbali, il percorso sonoro ha acquisito un’equilibrata dimensione cameristica.

Ha registrato il tutto esaurito, con la partecipazione di tanti giovani estasiati chitarristi, il concerto del trio di Julian Lage. Il trentunenne chitarrista californiano, già precoce bambino prodigio e oggi prolifico esponente dell’attualità americana, era accompagnato dai funzionali Jorge Roeder al contrabbasso ed Eric Doob alla batteria.

Il concerto si è aperto con un orecchiabile e semplice motivetto, un lento ballabile con riferimenti folk: l’ombra di Bill Frisell era ben presente, non tanto nella tecnica chitarristica quanto nell’atmosfera evocata. Ben presto l’andamento ha gradualmente deviato, increspandosi e tonificandosi, con il contrabbasso e la batteria a scandire un ritmo regolare, estremamente propulsivo per la chitarra del leader, che ha assunto un fraseggio sempre più inventivo e ricco di sfumature. Fra original e rivisitazioni di standard è comparsa una versione del colemaniano Tomorrow Is The Question, ma secondo una comunicativa cantabilità che sembrava prelevata da Pat Metheny. Con il bis, inizialmente cullante e pigro, si è tornati a dondolare il capo come nel brano d’apertura del concerto.

Oltre a tenere una sicura regia dello svolgimento concertistico, motivando i partner e interrompendo il flusso musicale con pochissime presentazioni verbali, Lage ha svettato con il suo linguaggio non particolarmente sperimentale ed esente dall’abrasività del rock; anzi calato in una certa tradizione jazzistica, dotato però di una notevole fantasia virtuosistica, articolata nelle dinamiche e cangiante nel sound. Soprattutto, la ricchezza della tecnica ha supportato la sua comunicativa semplice e disinvolta, sempre limpida, dal tono particolarmente positivo e gioioso.

Cassero Jazz 2019: Dark Dry Tears (foto di Mario Sabbatani)
Cassero Jazz 2019: Dark Dry Tears (foto di Mario Sabbatani)

Sono passati esattamente quattro anni dall’incisione per Parco della Musica Records del pregevole “Thinking Beats Where Mind Dies” dell’anomalo quartetto Dark Dry Tears pilotato da Danilo Gallo. Ascoltando oggi il gruppo dal vivo, l’impressione ricevuta è stata in parte diversa. Non solo perché Francesco Bearzatti, al quale estendiamo auguri di cuore per la delicata convalescenza che sta vivendo, è stato sostituito da Massimiliano Milesi, che ha apportato una voce nuova. Al Cassero si è avuta la sensazione che in questo contesto il sound, pur lirico e vibrante, dell’emergente sassofonista bergamasco, che pochi giorni prima di questo concerto ha partecipato a Roma alla registrazione del secondo cd del gruppo, non possegga la sintesi, la personalità e l’impatto di Bearzatti. Fra l’altro nella prima parte del concerto, a fronte della presenza determinante e gonfia del basso elettrico del leader e del drumming vulcanico, asciutto e pervadente, dell’insostituibile Jim Black, un’amplificazione non adeguata ha purtroppo impedito di cogliere appieno il gioco delle pronunce sovrapposte dei due fiati della front line.

Se questi sono stati i parziali limiti del concerto, è il caso ora di sottolineare i pregi della concezione di Gallo. La qualità dei suoi temi, di essenziale semplicità o di più scontrosa elaborazione ma sempre evocativi, ha avviato un’improvvisazione ribollente, chiamando i partner a una completa, creativa adesione. Ma la caratteristica più sorprendente, insolita e coraggiosa, è consistita nel far suonare quasi sempre assieme i due fiati (due sax tenori o clarinetto più sax soprano), stratificando le loro pronunce complementari, scambiando i loro ruoli, raggiungendo talora dei collettivi di satura densità. Una grande responsabilità è stata quindi affidata allo stretto interplay fra Milesi e Francesco Bigoni, che rappresenta un caposaldo storico della formazione, contribuendo con il suo linguaggio contrastato e volatile al tempo stesso, espressivo nel sound e ponderato nel fraseggio.

Libero Farnè