Carla Bley: nel corso del tempo

Per festeggiare un compleanno importante, la signora del jazz torna con un nuovo lavoro del suo trio - con Steve Swallow e Andy Sheppard - legato per la prima volta a suoi particolari stati d'animo

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Fermare l’orologio e poi dargli la carica per farlo ripartire. Osservare, come in una serie di fotografie istantanee, tutte le emozioni e i passaggi significativi dell’esistenza. Raccontare una o mille storie usando le note musicali e non le parole. D’accordo, non è così semplice fare tutto questo, ma la pianista e compositrice Carla Bley – 80 anni compiuti lo scorso 11 maggio e portati splendidamente – ci ha provato e, possiamo dirlo senza timore di smentite, ci è pure riuscita. Non ha agito da sola ma con la complicità di due musicisti che la assecondano da anni, ovvero il bassista (nonché compagno di vita) Steve Swallow e il sassofonista Andy Sheppard. Con «Andando el Tiempo» il trio formato da Bley, Swallow e Sheppard completa idealmente la trilogia aperta da «Songs With Legs» (Watt, 1995) e proseguita con «Trios» (ECM, 2015). Anche il nuovo album ha una coesione stilistica considerevole e si spinge lontano. La musica del trio è la somma delle voci in primo piano di ogni suo membro. Tre leader, guidati dal talento e dalla sensibilità di una delle autrici/arrangiatrici più attive e apprezzate del panorama musicale contemporaneo internazionale.

«Andando el Tiempo» si apre con una suite in tre movimenti, esteticamente molto differenti tra loro: Sin Fin, Potación de Guaya e Camino al Volver. Il primo movimento evidenzia le peculiarità espressive del trio, il secondo si spinge verso introversione e meditazione, il terzo è energico e ritmato. Quali erano le tue intenzioni e quali quelle dei tuoi comprimari, ovvero Steve Swallow e Andy Sheppard?
Non ho una risposta precisa e sintetica a questa domanda. So soltanto che il primo brano su cui abbiamo lavorato è Potación de Guaya [nella tradizione messicana la «potación de guaya» è una bevanda ottenuta ponendo in infusione nel brandy alcune foglie di marijuana, ndr]. Tra la genesi di questo brano e quella del pezzo nato successivamente, Sin Fín, è passato quasi un anno ma, a dispetto dell’ampio lasso di tempo, essi sono in stretta correlazione creativa ed emotiva, cioè sono due episodi della stessa storia.

Di che storia si tratta?
Di quella che sta alla base del disco, una storia che parla della dipendenza e della sofferenza che vive ogni giorno chi si trova a essere fisicamente schiavo di qualcosa che si impadronisce del corpo e, subito dopo, della mente. Questa condizione di schiavitù vanifica ogni autonomia, e saranno le cose che danno dipendenza a fare scelte o a prendere decisioni al posto nostro.

Pensi alla dipendenza in termini assoluti – per esempio, includi nel discorso anche la dipendenza dalla tecnologia, che è sempre più diffusa e apparentemente impossibile da fronteggiare – oppure ti riferisci solo alla dipendenza da sostanze nocive?
Mi riferisco alla dipendenza da droga o da alcol. Credo che, attualmente, la parola dipendenza [in inglese «addiction», ndr] sia spesso usata a sproposito. Per fare un esempio, se una persona ama in modo profondo e viscerale ciò che fa, qualcuno che osserva dall’esterno e non comprende l’entità della passione forse dirà: «Non ha più il contatto con la realtà, dipende totalmente dal proprio lavoro». Beh, questo non significa niente, è una considerazione superficiale. Se ciò che fai ti coinvolge completamente entrerai in uno stato di gioia o di beatitudine, e questo non mi sembra affatto disdicevole. No, per quanto riguarda il concetto di «addiction», penso alla dipendenza fisica da sostanze che debilitano e quindi inducono il corpo in uno stato di prostrazione da cui è difficile riaversi. Ritengo che anche il cibo debba essere incluso tra le sostanze che danno dipendenza. Forse è una visione molto americana della faccenda ma, guardandomi attorno, vedo troppa gente che si rifugia nel cibo, che lo usa per sopperire alle carenze affettive oppure per mascherare la timidezza o l’insicurezza. Mangiano, mangiano, mangiano… Per loro, sentirsi bene significa sentirsi sazi, perdendo completamente di vista il senso della misura. Bere tanta acqua può dare, allo stesso modo o quasi, un senso di sazietà ma non ci saranno conseguenze altrettanto negative dell’ingurgitare quantità eccessive di zuccheri o grassi di vario tipo.

Tra le forme di dipendenza fisica contemplate in Potación de Guaya includeresti anche la dipendenza emotiva o psicologica, cioè l’essere dipendenti da un’altra persona?
No, direi di no, per me il concetto di dipendenza ha un’accezione negativa mentre i rapporti umani – duraturi o temporanei che siano – sono fatti di luci e ombre, di alti e bassi, quindi hanno momenti buoni e momenti cattivi. Potación de Guaya è nato in maniera insolita, almeno per quanto riguarda il mio tipico modo di scrivere. Premetto che, per comporre, abitualmente non parto da un preciso stato d’animo. Di solito mi siedo al pianoforte e comincio a suonare. Lavoro con le note, non con parole o concetti o costrutti verbali. Così dal mio strumento escono note interessanti o note affascinanti e, nei momenti «no», note noiose o note sgradevoli. Non do un significato concettuale alle note: le note sono note, punto e basta. Posso essere soddisfatta della sequenza di note che ho immaginato oppure non esserlo affatto. In alcuni casi le melodie e le armonie che ho prodotto mantengono la loro forza espressiva per decenni, in altri casi sbiadiscono nell’arco di pochi mesi e poi vengono dimenticate. Tornando al mio nuovo disco, in «Andando el Tiempo» ho lavorato in modo inconsueto perché sono partita da qualcosa che sentivo dentro, cioè da una condizione di stress molto forte.

Cosa ti stressava?
Preferirei non parlarne. Se la musica che ho scritto e suonato con Steve e Andy ha un senso, allora chi la ascolterà potrà entrare in contatto con quella parte di me che l’ha generata e comprenderà come stavo anche senza sapere cosa mi ha fatto soffrire.
Sta per uscire un nuovo album della Liberation Music Orchestra, che tra gli altri brani ne conterrà uno che scrissi all’indomani della morte di Charlie Haden per celebrare l’importanza della sua vita e dell’enorme influenza che ha avuto sulla musica contemporanea e, allo stesso tempo, per dire quanto mi addolori che non sia più tra noi. Charlie mi manca molto. In genere, però, non agisco assecondando gli stati d’animo: suono e scrivo musica, senza implicazioni sentimentali o di altro tipo. Se mi vengono delle buone idee ci lavoro su, altrimenti le dimentico.

Le tue parole mi fanno pensare a ciò che scrisse Aaron Copland nel suo What To Listen For In Music. Parlando del suo lavoro, Copland mise da parte il concetto di ispirazione e spiegò che un compositore scrive musica ogni giorno, tutti i giorni, per tutta la vita.
Verissimo. Sai, a volte passi ore e ore a lavorare e ti rendi conto che non stai producendo nulla di interessante. Che cosa fare, a quel punto? Arrendersi? Mai. Bisogna continuare a cercare fino a quando non si trova una via d’uscita. Posso avere tra le mani la peggiore idea del mondo e trasformarla in qualcosa di buono, se mi impegno per arrivare a un risultato dignitoso.

Quanto è importante fare pratica?
È fondamentale. Io suono tutti i giorni, indipendentemente dal fatto che ne abbia voglia o no, che sia stanca oppure in ottima forma, che abbia delle idee o che la mia mente sia vuota.

Abitudine?
Parlerei piuttosto di… dipendenza!

Ci sono stati dei periodi senza musica nella tua vita?
No.

Oltre a quello di compositrice principale, qual è il tuo ruolo nel trio con Steve Swallow e Andy Sheppard? Ti senti la guida o, piuttosto, la «coscienza morale» della band?
Coscienza morale? Wow, è una bellissima definizione, davvero. Comunque sia, non mi sento né l’una né l’altra cosa, si tratta semplicemente del gruppo con cui lavoro oggi e loro sono i musicisti per cui scrivo musica da quando non compongo più per big band. Steve e Andy sono i destinatari delle mie idee, sono lo sbocco della mia creatività attuale, due persone con cui mi confronto e da cui mi aspetto qualcosa di personale che sia in sintonia con le idee che propongo loro. Aggiungono stile e spessore musicale all’insieme. Quando lavori per una big band devi scrivere quasi tutto ciò che verrà eseguito. I musicisti staranno seduti davanti alle partiture e leggeranno le note, dalla prima all’ultima. Gli unici margini di libertà espressiva si hanno durante i brevi assolo, quando un musicista improvvisa mentre tutti gli altri continuano a eseguire le note scritte. In trio è completamente diverso. La band è formata da tre persone che si ascoltano l’una con l’altra e integrano in maniera molto profonda il lavoro d’assieme. Comunque ci sono delle differenze, vale a dire che i contributi sono di tipo diverso. Steve scrive da solo le proprie parti e crea la linea ritmica in totale autonomia. Andy esegue le parti che gli fornisco io ma quando si tratta di prendere un assolo va avanti da sé: in quel momento aggiunge il suo stile alle mie idee iniziali. Una melodia può essere eseguita in decine di modi diversi e in questo c’è una grande libertà. Andy interpreta alla perfezione quel che scrivo io, arriva a fare ciò che desidero, ciò che voglio da lui.

Umberto Eco parlava di due tipi di lettori: il lettore ideale e il lettore empirico. Il primo fa ciò che lo scrittore vorrebbe, per esempio ride o piange al momento «giusto». Il secondo invece fa ciò che vuole, cioè cerca se stesso all’interno di un romanzo o di un saggio, quindi non è prevedibile. Tu hai in mente un’ascoltatore tipo, quando scrivi musica?
Sì, ed è proprio per quell’ascoltatore che compongo. Ci stavo pensando proprio stamattina, poco dopo essermi svegliata… Nel mondo del jazz i musicisti solitamente fanno musica per loro stessi. Nel mondo del pop-rock i musicisti fanno musica che ha lo scopo di essere recepita e accettata da un pubblico nonché da un mercato, quindi cercano delle strade per arrivare alla gente. È una differenza abissale. Molti jazzisti hanno un approccio che potremmo definire egoistico: pensano solo a loro stessi, cioè a essere soddisfatti di ciò che fanno in musica e se gli altri non apprezzano o se si sentono a disagio ascoltandoli, beh, tanto peggio per loro. Non intendo criticare questo tipo di scelte ma se ciò che suoni non piace a nessuno, allora non ci sarà mai un’etichetta disposta a farti incidere un disco e non un solo locale ti offrirà un ingaggio per suonare questa o quella sera. La musica resterà confinata all’interno di una cantina o nella tua testa, quindi come artista smetterai presto di esistere. Quando compongo ho in mente un certo tipo di ascoltatrice o di ascoltatore, qualcuno che è pronto a recepire musica che potrà suscitare emozioni disparate quindi potrà essere rassicurante oppure destabilizzante, fruibile e immediata o, al contrario, ostica o semplicemente difficile. Se ciò che propongo mi rappresenta e, allo stesso tempo, cerca di avvicinarsi a chi ascolta, probabilmente ci sarà un incontro. Fare ciò che si desidera e guadagnarsi da vivere è un privilegio che hanno in pochi, fortunati artisti.

E tu ritieni di far parte di questo sparuto gruppo di artisti?
Sì, in questo senso mi ritengo una persona molto fortunata. Ho sempre fatto ciò che volevo. D’accordo, non ho mai suonato per folle da stadio, non mi seguono milioni di persone ma migliaia di appassionati sono venuti ai miei concerti e non è poco.

Nella foto che compare sulla copertina di «Andando El Tiempo» ci sei tu, al pianoforte, mentre maneggi diversi spartiti che sembrano vivere di vita propria, disobbedendo al tuo volere. Sei stata tu a scegliere la foto?
No. È un’immagine divertente e realista: mi piace molto ma l’ha scelta Manfred Eicher, che si fa carico degli aspetti grafici e artistici dei dischi col marchio ECM. Io mi occupo soltanto di musica. In aggiunta a questo, Manfred mi ha chiesto di redigere le note di copertina che compaiono nel libretto e l’ho fatto volentieri.

So che ascolteremo il trio Bley-Swallow-Sheppard dal vivo in Italia nell’estate 2016.
Certo! In luglio ci sarà un nostro tour europeo e avremo anche quattro concerti in Italia: se non lo facessimo, l’estate non sarebbe più la stessa per noi!

Maurizio Principato