Intervista a Bruno Canino ed Enrico Pieranunzi I parte

303

di Alceste Ayroldi

In occasione del doppio concerto che Bruno Canino ed Enrico Pieranunzi terranno alla rassegna MiTo il 5 settembre a Torino e il 7 a Milano e della prossima uscita del loro lavoro discografico, abbiamo chiacchierato con entrambi. Questa è la prima parte dell’intervista.

Come vi siete conosciuti e chi ha avuto l’idea di intraprendere un percorso musicale comune?

BC: Enrico avrà sentito dei miei concerti, io ho sentito i suoi, e, particolarmente, avevo suonato spesso col fratello di Enrico, il violinista Gabriele.

EP: Ci siamo seguiti da lontano per molto tempo con attenzione e grande rispetto. Mi aveva tra l’altro molto colpito una sua frase detta durante un’intervista. Gli fu chiesto se gli piaceva il jazz e lui disse: «Sì, molto, ma mi ci vorrebbe un’altra vita per impararlo». Trovai una inusuale umiltà e molta  sapienza in quella risposta. Fu una sorta di «segno» per me. Poi ci siamo incontrati  materialmente tre anni fa, nella sua città d’origine, Napoli. Venne a un mio concerto in  piano solo e non nascondo che quando lo vidi avvicinarsi alla prima fila e sedersi per ascoltarmi l’emozione fu grande. Alla fine parlammo un po’ e fu in quella breve conversazione  che si affacciò per la prima volta l’idea di una collaborazione.

Maestro Canino, quando è iniziata la sua passione per il jazz, per l’improvvisazione?

In realtà, poiché ho una vita abbastanza movimentata, non posso dire di conoscere il jazz che sporadicamente. Mi ricordo Duke Ellington, Gerry Mulligan, Chick Corea. È un interesse più che una passione. L’improvvisazione l’ho praticata soltanto realizzando il basso continuo e svolgendo certe fioriture in Mozart.

Maestro Pieranunzi, la sua passione per la musica classica è ben conosciuta, così come la sua maestria nel jazz. Quale delle due è iniziata prima?

E’ una storia particolare, perché non c’è stato un prima e dopo. Le due musiche iniziarono insieme e hanno sempre continuato a camminare in parallelo. Quando mio padre – avevo  cinque anni e mezzo – con una  sua iniziativa del tutto autonoma e completamente sorprendente per me decise di prendere un pianoforte, trovò anche una maestrina da cui cominciai ad andare per imparare  i primi rudimenti di solfeggio, piano classico e così via. Nel contempo lui, che era chitarrista,  mi insegnò i primi segreti del  jazz e prestissimo cominciammo a suonare insieme standard americani su cui poco dopo  cominciai a improvvisare. Tutto è cominciato così ed è continuato allo stesso modo  praticamente  fino  a oggi.

Questo vostro connubio potrebbe avvicinare due «fazioni» quasi da sempre in antitesi, per non dire in competizione. La domanda è: perché sono, almeno in Italia, in aperta competizione? Perché i «classici» vedono con sospetto i jazzisti?

BC: Trovo deleteria la suddivisione della musica in generi e fazioni rivali, ostili l’una all’altra. Ho avuto grande ammirazione per i musicisti jazz, e penso e spero che nella musica si vadano ricomponendo unità di stili e di linguaggio: come nel Medioevo e nel Rinascimento. L’operetta ha rovinato tutto.

EP: Parlerei piuttosto di reciproca indifferenza, o diffidenza, anche se «faziosamente» vorrei dire che i musicisti di jazz sono in genere molto più curiosi e appassionati di quello che  è accaduto e accade dall’altra parte  di quanto non avvenga in direzione opposta. Quanto alla competizione penso che si tratti di una assurda, un po’ stucchevole contrapposizione «musica scritta versus musica orale». E’ qui che si nasconde il vero nodo del problema. Oralità, infatti, vuol dire improvvisare e la parola improvvisazione, per motivi misteriosi, talvolta snobistici e sovente anche per ignoranza o  invidia  è assimilata ad una pratica inferiore, se non addirittura volgare.  Il che è francamente ridicolo, perché è noto che i più grandi compositori, da Bach a Debussy, maneggiavano la tecnica improvvisativa  con estrema maestria e la tenevano in altissima considerazione.  La realtà è che  l’improvvisazione (che non è affatto, come si crede, propria solo del jazz) è un grande motore musicale: aiuta moltissimo lo sviluppo psicofisico della musicalità, è una via aurea attraverso cui si può più facilmente pervenire alla composizione e dovrebbe essere messa tra le materie  pratiche  di ogni strumento fin dall’inizio dei corsi. Tanto per rimanere nel paradosso comunque,  il duo col maestro Canino non prevede alcuna improvvisazione: suoniamo tutto quello che è scritto. Certo, abbiamo incluso nel nostro repertorio anche musica di derivazione jazzistica, che implica a volte pronunce particolari. Un’ulteriore conferma del fatto che il  jazz non è, come moltissimi purtroppo ancora pensano, solo all’improvvisazione. Ma il discorso a questo punto si farebbe troppo lungo. Spero solo che quello che lei dice (l’avvicinamento delle due fazioni) possa realmente  verificarsi  e che i sospetti reciproci si diradino per sempre. Ma non ne sarei così sicuro.

Il jazz pensa sempre più alla musica classica, alla lirica. Ma la musica classica pensa al jazz? Nelle composizioni di classica contemporanea c’è una maggiore attenzione all’improvvisazione?

EP: L’ultimo periodo in cui questo è accaduto è ormai veramente lontano. Parliamo di molti decenni fa, quando si teorizzava e ci si cimentava con l’alea. Oggi c’è una quantità infinitamente maggiore di ibridazione rispetto ad allora, molti confini si sono allentati e i  musicisti classici delle nuove generazioni (sia esecutori che compositori/arrangiatori) frequentano  senza problemi i  campi linguistici  più diversi compresi quelli in cui compare anche l’improvvisazione. Basti pensare alla musica di John Adams che senza alcun pregiudizio e timore reverenziale mescola con disinvoltura, a fini espressivi, di tutto, dai suoni rock a quelli jazz alle tecniche accademiche. Inoltre, paradossalmente, l’ormai evidente prevalere del visivo sull’auditivo stimola la ricerca compositiva verso una direzione in cui l’improvvisazione estemporanea può avere un suo ruolo.

Maestro Canino, come definisce lo stile interpretativo del Maestro Pieranunzi?

Di Pieranunzi ammiro le armonie, raffinate e non banali, e anche la filosofia del racconto al pubblico.

Maestro Pieranunzi, come definisce lo stile interpretativo del Maestro Canino?

Definirlo mi sembrerebbe limitativo. Se dovessi  però elencare qualche aggettivo direi intelligente, profondo, anti-spettacolare: tutte qualità che adoro nei musicisti. Bruno appartiene a quella ormai ristretta categoria di interpreti  per i quali – sembra banale, eppure…- l’obiettivo principale del far musica è la musica stessa. O, per dirla meglio, la musica è il mezzo e anche il fine.  Di questi tempi ci vuole un coraggio intellettuale immenso per proporsi così  e il maestro ne ha da vendere. Ammiro la sua innocente e  consapevole  coerenza nel mantenere costantemente questa sorta di bussola etico-estetica  Sinceramente non credo ci siano al mondo molti pianisti in grado di fare  quello che ha fatto e ancora magnificamente fa lui.

Parliamo del repertorio. C’è qualche criterio che avete seguito nell’effettuare le scelte?

BC: Spesso le scelte dipendono dei committenti.

EP: Cerchiamo sempre di mettere in repertorio musiche che ci piace suonare. E’ semplice. Sovente in prova leggiamo velocemente dei brani e magari li scartiamo se ci sembrano formalmente deboli. Quindi un primo criterio è la solidità narrativa del pezzo, la sua consistenza. Per il resto non ci siamo posti limiti. Da Bach al Novecento ci piace suonare tutto. Ogni tanto gli propongo qualche mio pezzo e sono onorato che gli piaccia di metterli su. Variazioni su un tema di Gershwin è presente nel programma dei due concerti di settembre nell’ambito di MiTo.

Alceste Ayroldi

La II parte dell’intervista sarà pubblicata nei prossimi giorni.