«BORDERLINE». INTERVISTA A MAX DE ALOE

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L’armonicista Max De Aloe ha da poco pubblicato con l’Abeat il suo ultimo lavoro discografico: «Borderline». Ne parliamo con lui.

Max, il titolo «Borderline» è motivato dal fatto che il jazz di Monk è accanto ai Nirvana, a Syd Barrett e a Robert Schumann?

In realtà la scelta di questi compositori sospesi «tra normalità e follia» è arrivata in un secondo momento. Come scrivo nelle note di copertina di quest’album tutto è iniziato nel giugno del 2013 quando andai a Ravenna per visitare la mostra Borderline. Opere di  personalità artistiche socialmente considerate in bilico tra normalità e follia. In quel pomeriggio, quadro dopo quadro,  mi resi conto che quei dipinti mi stavano soggiogando. L’urgenza di questi artisti, a tratti urlata e inaspettata, stava facendo nascere in me, in maniera improvvisa, la voglia di fare musica. Tra tutti mi hanno colpito le opere di Carlo Zinelli, che dopo dieci anni di isolamento quasi assoluto nell’ospedale psichiatrico di Verona, scopre la pittura. L’arte che fa risorgere l’uomo e fa nascere un artista vitale che ci regalerà negli anni più di duemila dipinti. Quel suo bisogno disperato di espressione attraverso la pittura, ma anche la sua ironia sottile, non mi davano scampo. In quel momento, almeno nella mia testa, nasceva questo cd.

Una strada che avevi già iniziato con «Mutamenti», «Bjork On The Moon» e «Pop Art». Universi sonori che si incontrano o sono sempre stati vicini?

Sono un musicista di jazz. Il jazz è la musica che ho approfondito meglio e che continuo a studiare ma le mie passione musicali sono molteplici. Inevitabilmente cerco di coniugarle tra loro. Fin dal mio primo disco da solista, «La Danza di Matisse», che risale a sedici anni fa, non c’era solo il jazz. Il jazz è solo un strumento, un linguaggio per raccontare anche altro. La curiosità di esplorare altro mi dà sempre materiale nuovo da studiare, da capire. Mi fa mettere un gioco. Il bello della musica è proprio questa sua immensità che ci fa sentire piccolissimi ma nello stesso tempo dove c’è sempre da scoprire e trarne esperienza. Un po’ come un alpinista davanti a una nuova vetta da affrontare.

Da Bjork ora la tua passione sembra si sia spostata sui Nirvana. Cosa ti piace della loro musica?

Se devo essere sincero, non impazzisco per i Nirvana ma ho sempre trovato affascinante il brano Smells Like Teen Spirit. In quella canzone, che uscì quando già mi ero avviato alla carriera di jazzista, ho sempre sentito una disperazione che su di me risultava essere magnetica. Pochi accordi, una linea melodica essenziale, ma sotto autenticità e purezza. Kurt Cobain mi appariva allora con l’innocenza di un bambino spaventato e nello stesso tempo come un Sartre con la chitarra. Suonare quel brano dal vivo è un’esperienza sempre molto forte.   Un brano che insieme a Roberto Olzer abbiamo rispolverato in duo qualche mese fa, per la trasmissione di Sky con Federico Buffa dedicata alla puntata dei mondiali di calcio del 1994. Dopo la messa in onda di quella puntata sono rimasto sorpreso dalle decine e decine di tweet di appassionati di calcio che si ritrovavano ad apprezzare la nostra versione alquanto intimista di questo brano.

Dopo due dischi in duo, sei ritornato al tuo quartetto di Bjork On The Moon. Una scelta legata alle sonorità che volevi per questo album, oppure i precedenti due dischi erano solo delle parentesi?

Il mio quartetto con Roberto Olzer al pianoforte, Marco Mistrangelo al contrabbasso e Nicola Stranieri alla batteria è un gruppo che esiste da ormai otto anni con quattro album in studio e un live. Abbiamo un suono, un’identità, una passione e una direzione musicale comune. Questo quartetto è diventato una parte di me   molto profonda da cui non potrei prescindere. O almeno per  ora sento che è così. Tra noi c’è un’empatia che non ho mai trovato in passato. La voglia di rischiare in progetti diversi dal mainstream, l’idea di gestire prove insieme per trovare arrangiamenti, nuovo soluzioni. Il tutto poi unito all’individualità di ognuno e al linguaggio comune del jazz.  C’è alla base una grande stima reciproca e una voglia di non primeggiare sull’altro. L’obiettivo è solo fare della buona musica. E di imparare dagli altri.

Poi arrivano Robert Schumann e Syd Barrett. Tue due passioni? Cosa rappresentano per te?

Schumann e Barrett possono essere identificati come da una parte il mio amore per la classica e dall’altra quella per il rock.  Con la musica classica, intendo come ascoltatore, ci sono arrivato più tardi. Traghettato da una passione per la melodia che ho sempre sentito vicino. Non solo Schumann, ma anche Brahms, Elgar, Stravinsky. Ma anche  Monteverdi e tanta musica barocca: Purcell, Händel, Abel, Hume, Telemann e ovviamente Bach. Recentemente mi sono messo anche a studiare la viola da gamba basso a sette corde. Una follia che mi fa scoprire nella bellezza eterea del suono di questo strumento lo stupore di essere tornato bambino. E attraverso lo studio di questo strumento apro delle piccole porte verso una musica scritta 400 anni fa ma per me di una  modernità sorprendente.  Dall’altra parte il rock. Ovviamente la nostra è una generazione di jazzisti che è passata attraverso la passione per il rock. Tantissimi sono i gruppi che ho amato ma anche che scopro o riscopro tuttora. Da alcuni vecchi dischi dei Pink Floyd fino ai Sigur Ros. Anche se il rock non è più così presente nei mie ascolti. Invece c’è da sempre tanto Brasile nella musica che amo anche se forse non c’è traccia in questo «Borderline».

E Thelonious Monk?

Monk, soprattutto il Monk compositore, è il jazz. E’ la genialità irreverente. E’ l’anticonvenzionale all’interno di regole musicali ben precise. E’ soprattutto spostamento ritmico che ingaggia una battaglia con il tessuto armonico. Lui è lo stratega che ci incanta. Il demone con la faccia da buono. Per quanto possa ascoltare o tentare di suonare altre musiche il jazz è il mio mondo. Dove mi sento a casa, dove riconosco il linguaggio che mi appartiene. Dove si parla uno slang che sento di comprendere  e soprattutto dove la mia natura riesce ad avere più sfogo.

Hai dedicato una tua composizione ad Adolf Wölfli. Perché?

Nel cd c’è il brano Atea preghiera dedicata al pittore Carlo Zinelli ed un’altra ad Adolf Wölfli. Se guardo dei loro quadri istantaneamente nella mia testa sento della musica. Due personaggi mentalmente disturbati che mi schiantano al suolo per la bellezza sincera e disperata della loro arte.

Qual è stata la linea di pensiero/artistica che hai seguito negli arrangiamenti delle cover?

I nostri arrangiamenti li realizziamo insieme, tutti e quattro. Da sempre quando ci avviciniamo a un nuovo disco io porto l’idea di base, il progetto ma poi c’è un lavoro corale. Il tutto avviene in una baita in pietra in Valdossola dove vive Roberto Olzer. Ci troviamo lì e iniziamo a provare. Ovvio che quella non è solo una fase di prova ma un nostro modo di vivere la musica come laboratorio creativo. E’ l’altra parte che il concerto e in viaggi insieme non ci possono dare. E’ un completamento, una piccola oasi di creatività stile Grateful Dead anni Sessanta. Sul disco c’è il mio nome e sono spesso io ad essere intervistato ma questo quartetto, ci tengo a ripeterlo, è frutto di un lavoro comune. Mi è capitato spesso di lavorare con nomi importanti anche del jazz di oltreoceano o con italiani blasonati ma la mia vera crescita musicale la devo soprattutto a questo quartetto. Ho sempre suonato con musicisti più bravi di me. Non mi ha mai spaventato essere un po’ meno preparato degli altri. Ho sempre usato la bravura degli altri per migliorare. Il mio conservatorio sono stati i miei partner musicali. Grazie alla singolarità del mio strumento ho avuto la fortuna di iniziare ad essere ospitato fin da giovane dai grandi del jazz italiano. Una palestra che continua sempre.

Max, tre buoni motivi per convincere un futuro musicista a suonare l’armonica cromatica.

Un suono che fa venire le lacrime da quanto è bello

Che con l’armonica c’è tanto ancora da inventare e da scoprire.

Che tutti pensano che non è un vero strumento musicale, che è un gioco. E in fondo cosa c’è di più bello di giocare e lasciarglielo credere.

Chi ti ha convinto a suonare l’armonica?

Un vecchio lp di Toots Thielemans con il trio della pianista Joanne Brackeen.

Chi è il tuo punto di riferimento artistico?

Ne ho tanti. Per l’armonica da sempre Toots Thielemans anche se ascolto raramente dei dischi di armonica. Nel jazz, tra i contemporanei potrei dirti Wayne Shorter, Marcin WasilewskyJohn Taylor, Enrico Pieranunzi, Dino Saluzzi, John Surman, Tom Harrell e molti altri.  In un altro ambito Wieland Kuijken e ovviamente  Jordi Savall e non solo per il suo lavoro sulla viola da gamba nel barocco ma anche per i suoi sconfinamenti nella musica del medio-oriente. Poi moltissimi altri, Rabih Abou-Khalil per esempio. Tra i tanti della musica brasiliana sopra a tutti Chico Buarque e Djavan. Ma l’elenco sarebbe molto più lungo. Sul jazz del passato Duke Ellington, Billy Strayhorn, Miles Davis, Bill Evans. Su tutti la bellezza di Chet Baker mi commuove ancora come la prima volta che l’ho ascoltato.

A quali altri progetti stai lavorando e quali saranno i tuoi prossimi impegni?

Un disco e un progetto con gli Sharg Uldusù dove suoniamo musica del vicino oriente e un progetto in solo che forse si chiamerò Armonica bastarda. Ma soprattutto portare avanti le varie formazioni che mi stanno più cuore: il quartetto, il duo con l’arpista Marcella Carboni, il duo con la violoncellista brasiliana Marlise Goidanich, e quello con Gianni Coscia o con Attilio Zanchi. Poi la bellezza di cose estemporanee dove si suonano gli standard jazz, che amo sempre tanto e da cui c’è sempre tanto da imparare.

Alceste Ayroldi

Foto di copertina: Elisa Lovati