Bologna Jazz festival. Prima parte: i club

La maggior parte dei concerti del festival si è tenuta nei jazz club, con appuntamenti che meritano la massima attenzione.

767
Peter Bernstein Quartet Foto di Daniele Franchi

Bologna, Ferrara, Forlì, Modena
Varie sedi
28 ottobre – 16 novembre

La programmazione del Bologna Jazz Festival sembra subire negli anni un’evoluzione sempre più accentuata. Se l’arco temporale coperto lo parifica a un’estesa rassegna più che a un festival concentrato, l’estensione territoriale si dilata da Bologna e provincia fino a comprendere Ferrara, Forlì e Modena. L’impronta più evidente di questa edizione consiste però nel collocare solo pochi concerti nei teatri, distribuendo la maggior parte di essi soprattutto nei jazz club. Appunto sui più importanti di questi appuntamenti puntiamo l’attenzione in questa prima puntata del resoconto del festival bolognese.
Il Camera Jazz & Music Club è il più recente dei club bolognesi e si trova all’ingresso di piazza Santo Stefano, il salotto d Bologna. Inaugurato nell’autunno 2019, ha subito la sosta forzata per il lockdown per poi riprendere ora a ritmo sostenuto sotto la direzione del suo gestore: il sassofonista Piero Odorici. Il trio Rope, formato da Fabrizio Puglisi al pianoforte, Stefano Senni al contrabbasso e Zeno De Rossi alla batteria, è attivo dal 2002 e il suo terzo cd è pronto per la pubblicazione. Un trio paritario, i cui membri si sono confrontati anche nella scelta del repertorio, che nel concerto bolognese ha privilegiato le composizioni di Charlie Haden. Si sono ascoltati Spiritual, Blues in Motion, La Pasionaria… fino all’immancabile Song For Che, introdotto da un corposo assolo di Senni, appunto hadeniano. Per la verità il repertorio è stato assai mirato, tracciando una sorta di viaggio nel tempo, da I’ve Got Rhythm di Duke Ellington a Nefesh di John Zorn, contemplando brani di Bill Frisell, Misha Mengelberg, George Gershwin e altri. Si è insomma assistito a un personale compendio di una storia del jazz, interpretato con partecipata concentrazione e concretezza, evitando sia superficiali, edulcorati virtuosismi sia una trasgressione di stampo espressionista, se si escludono le forsennate escursioni sulla tastiera da parte di Puglisi in Fiasco di Paul Motian. Il pianista catanese, bolognese d’adozione, ha convinto appieno per la determinazione e il variegato modo di approcciarsi alle improvvisazioni dei singoli temi. Quanto a Senni e De Rossi non si può che ammirare la pertinenza dei loro contributi, nonché il drive efficiente della loro conduzione ritmica.

Giorgio Pacorig – Zeno De Rossi – Francesco Bigoni Foto di Vito Meci

Due settimane dopo, sempre al Camera, si è ascoltato Zeno De Rossi in veste di leader alla testa del suo trio, che ha solo in parte ripreso il repertorio di «Elpis» cd edito nel 2020 dalla Skirl, con la variante che Giorgio Pacorig ha suonato il pianoforte anziché il piano elettrico. Brani di Coleman o di Monk (Teo e Locomotive) si sono alternati a original, concepiti però alla maniera di Coleman, Monk, Ayler o ispirati a soggetti folclorici di varie provenienze culturali. Proprio questa concezione compositiva ha espresso quell’aspirazione alla speranza sottintesa dal titolo del cd: Elpis, termine tratto dal greco, significa appunto speranza. I temi infatti, prevalentemente su tempi medi, ma anche quando lenti e malinconici, erano sottoposti a continue reiterazioni e variazioni, lasciando intravvedere nella ricerca improvvisativa l’affermativa esigenza di trovare soluzioni alternative o vie d’uscita, lasciando trapelare sempre una luce in fondo al tunnel, un approdo positivo del percorso musicale. Gli spazi improvvisativi, che hanno dato consistenza a questa visione predominante, sono stati soprattutto a carico di Pacorig e di Francesco Bigoni. La condensata azione del pianista friulano ha sviluppato con intelligenza gli aspetti armonici, timbrici e dinamici insiti in ogni brano, mentre il tenorista ferrarese, al clarinetto in un paio di brani, ha dimostrato in questo contesto, forse anche complice l’acustica del locale sotto le basse volte in mattone, una voce estremamente piena e potente anziché le inflessioni più evocative, insinuanti e velate rivelate in altre occasioni. Quanto al leader ha retto con distaccata autorevolezza la regia del tutto, esprimendo un drumming parsimonioso, ma secco e sempre efficace.

Francesco Bearzatti Tinissima 4tet Foto di Adriana Tuzzo

In via Mascarella, un altro centro della movida bolognese, si fronteggiano la Cantina Bentivoglio e il Bravo Caffè. Quest’ultimo ha ospitato una strepitosa apparizione del Francesco Bearzatti Tinissima Quartet nella riproposizione del suo ultimo progetto dedicato alla mitica figura di Zorro. La vicenda del personaggio come concepita da Bearzatti si concatena come una vera e propria musica a programma. Se nel cd, edito nel 2020 dalla Cam Jazz, il percorso viene prosciugato in un’enunciazione un po’ didascalica dei temi, sintetica e significativa ma senza prendere il volo dell’improvvisazione più trascinante, dal vivo l’interplay e la partecipazione emotiva portano a risultati ben più consistenti. Nell’ambiente stipato del piccolo club, l’acustica satura e la vicinanza fisica fra esecutori e pubblico hanno favorito un’esecuzione e un ascolto molto empatico, molto più coinvolgente che nei recenti concerti ascoltati in teatro. Dopo la breve esposizione di Zorro, il tema d’apertura, la musica si è dipanata nei vari movimenti senza interruzioni, con un crescendo poderoso e un tono concitato, mettendo in evidenza i focosi contributi di sax e tromba, spesso strettamente intrecciati fra loro. L’introduzione di Lolita, affidata solamente a Giovanni Falzone, ha costituito una cesura dinamica, un’area di decantazione, ben presto seguita dalla ripresa di una marcata scansione ritmica e dalla coriacea pronuncia di clarinetto e tromba ancora dialoganti, per poi lasciare il posto all’assolo risonante, evocativo, gonfio della chitarra basso di Danilo Gallo. Nel brano finale, El triunfo del Zorro, l’improvvisazione collettiva ha raggiunto livelli parossistici, esaltanti, con il volume del basso forse un po’ sovrastante e un Zeno De Rossi – ancora lui – veemente e insostituibile, ma sempre amministratore attento, quasi impassibile, del suo drumming.

Peter Bernstein 4tet
Foto di Daniele Franchi

Quattro sono stati i concerti ospitati dalla Cantina Bentivoglio, tra cui quello del Peter Bernstein Quartet, che ha esposto la sua concezione jazzistica diretta, concreta, swingante, in buona parte aderente ai canoni del mainstream. Il composito repertorio ha messo in evidenza gli original del leader, come Dragonfly, movimentato in aeree volute, ma anche brani come Luiza di Antonio Carlos Jobim, My Laurie, omaggio a Pat Martino recentemente scomparso, e alcuni standard. Come chitarrista Bernstein ha raccontato storie lineari e avvolgenti, con il suo fraseggio limpido e sgranato, a tratti bluesy, ben assecondato dai suoi partner: asciutto, senza fronzoli, pertinente il contributo del contrabbassista Doug Weiss, mentre il drumming spumeggiante e onnipresente di Roberto Gatto ha rappresentato il motore propellente dell’insieme. Ma il personaggio che merita un’attenzione particolare è il giovane pianista Sullivan Fortner: già ammirato a Umbria Jazz 2021 al fianco di Cécile McLorin Salvant, sarà uno dei protagonisti della prossima edizione di Umbria Jazz Winter a Orvieto. Il suo pianismo, perennemente impegnato a sviscerare e complicare l’impianto armonico dei brani, presenta una diteggiatura personale, ora alternando la mano destra e quella sinistra in figure saltellanti, ora coordinandole in parallelo tracciando frenetiche scorribande sulla tastiera.
Libero Farné