Bologna Jazz Festival 2018

di Libero Farnè

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Andrea Centazzo (foto di Massimo Golfieri)
Andrea Centazzo (foto di Massimo Golfieri)

Bologna, Ferrara, Modena: 25 ottobre – 25 novembre (varie sedi)

In estrema sintesi definirei “possibilista” il carattere di questa tredicesima edizione del Bologna Jazz Festival, rinato nel 2006 con criteri e obiettivi in via di assestamento anno dopo anno. Da un punto di vista stilistico la programmazione ha offerto un’ampia gamma di proposte, previlegiando le larghe formazioni: nomi dell’attualità ospitati soprattutto al Torrione Jazz Club di Ferrara, formazioni di richiamo un po’ stantie, come The Manhattan Transfert a Carpi, esponenti del mainstream, da Barry Harris a Steve Kuhn, gruppi italiani (Fabrizio Bosso, Antonio Faraò, la sorprendente Tower Jazz Composers Orchestra assieme a David Murray…) e altro ancora. Ma soprattutto, con voracità quasi bulimica, nell’arco di un mese si è attivata un’estesa rete di sinergiche collaborazioni: con Angelica – Centro di Ricerca Musicale, con il Conservatorio G. B. Martini, la Cineteca di Bologna, l’Accademia di Belle Arti, l’Università di Bologna… Forte di un gran numero di concerti, ma anche di un progetto didattico, colloqui sul jazz e imperdibili filmati, il Bologna Jazz Festival 2018 è andato alla conquista di un territorio sempre più vasto, diramandosi dal centro storico del capoluogo a Ferrara, a Modena, alle cittadine di Budrio, Castelmaggiore, Cento, Carpi, Vignola…

Insomma l’obiettivo non è stato tanto quello di ampliare l’offerta musicale, ma soprattutto quello di rinnovare l’impianto organizzativo, di tentare soluzioni nuove, sondando mezzi e modi di comunicazione sempre diversi e cercando di raggiungere e sollecitare pubblici differenti per formazione, esigenze ed età. Un procedere per tentativi quindi, a volte disinvoltamente improvvisati altre rigorosamente costruiti, ma sempre con l’idea precisa di allargare lo spettro delle possibilità percorribili. Al di là dei risultati, questo “possibilismo” pluridirezionale rappresenta una delle tendenze in atto, forse la prevalente, e in questo il Bologna Jazz Festival si affianca ad altre rassegne come Bologna Modern o Crossroads e a tanti altri festival nazionali. Sembra definitivamente superata l’epoca dei festival racchiusi in pochi giorni e incentrati esclusivamente su concerti mirati; ancor più rari sono i festival “di tendenza”, si tratti di mainstream, etno-jazz o avanguardia.

Dal resoconto di alcuni appuntamenti relativi alla seconda metà del festival si può avere un’idea di questo possibilismo stilistico e organizzativo, di questa differenziazione delle proposte.

Il duo Salis-Zanchini (foto di Roberto Cifarelli)
Il duo Salis-Zanchini (foto di Roberto Cifarelli)

In un concerto pomeridiano a Villa Zarri di Castelmaggiore, sontuosa sede privata destinata a ricevimenti, sono tornati a confrontarsi Antonello Salis e Simone Zanchini. Di fronte a un pubblico eterogeneo, la loro navigazione in mare aperto ha dato adito a un’improvvisazione scatenata e turbinosa, in cui si sono concretizzate masse sonore di visionario espressionismo o ironiche leggerezze. Qua e là si sono inserite estemporanee citazioni, opportunamente deformate, di standard jazz, di musica classica, di risonanze liturgiche e di motivi ben noti: da Paparazzi di Salis a temi di Ennio Morricone. Il loro simbiotico interplay, traboccante d’invenzioni, sorprese e deviazioni, non si è mai soffermato più di un minuto sulla stessa idea, donando una performance di un’energia vitalistica e coinvolgente. Tutto sommato compatibile con l’estroversione del concerto è stato il momento conviviale che ne ha fatto seguito, un aperitivo con degustazione di vini sardi e assaggi organizzato dalla Cantina Bentivoglio.

Di segno totalmente opposto è risultato l’evento in occasione dei settant’anni di Andrea Centazzo. Una mostra di materiale estremamente raro e interessante (spartiti, manifesti, opere d’arte visiva, strumenti, dischi, foto…), tratto dal fondo donato dal musicista al Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna, è stata allestita dal Dipartimento stesso nella biblioteca di Palazzo Marescotti. La sera seguente all’inaugurazione della mostra, al Teatro San Leonardo si è tenuto il concerto in solo di Centazzo, organizzato in collaborazione con Angelica – Centro di Ricerca Musicale e la partecipazione del Dipartimento già citato.

La prima assoluta di Cycles of Life, antologia di lavori multimediali, ha visto l’autore alle prese con percussioni, tastiere e campionamenti, mentre alle sue spalle scorrevano le suggestive immagini dei filmati da lui stesso laboriosamente realizzati. Si è trattato di una mirabile sintesi autobiografica, di un affresco di sensazioni che hanno distillato esperienze personali ed esplorazioni all’interno di culture diverse. Con un incatenante senso narrativo e un minimalismo sonoro dinamico e cangiante, fantascientifici viaggi cosmici si sono saldati con viaggi di immersione nel misticismo orientale; gli spazi sterminati e alienanti del deserto del Nevada hanno rimandato all’alienazione della città postindustriale; anticipazioni del progetto su Leonardo si sono alternate con la riproposizione di un frammento di una propria performance storica, stratificata in modo dialogante con la creazione musicale in diretta.

Andrea Centazzo (foto di Massimo Golfieri)
Andrea Centazzo (foto di Massimo Golfieri)

Quest’anno si celebrava anche il sessantesimo anniversario dello storico e glorioso festival di Bologna, partito in modo timido e sperimentale nel 1958 sotto la direzione di Alberto Alberti e Cicci Foresti. Per l’occasione al Teatro Testoni si è proceduto all’assegnazione del Premio Massimo Mutti, riconoscendo borse di studio a due allievi del Liceo Musicale “Lucio Dalla” e altrettante ad allievi del Dipartimento Jazz del Conservatorio di Bologna. Subito dopo la Big Band dello stesso conservatorio, sotto la direzione del docente Michele Corcella e rinforzata da veterani fra i quali Cristiano Arcelli e Massimo Greco, ha eseguito brani di Herbie Hancock. Sugli arrangiamenti, dovuti di brano in brano a diversi allievi dell’istituzione e diversificati per ispirazione, compattezza, andamento ritmico, si sono di volta in volta messi in evidenza gli ospiti, tutti personaggi di spicco dell’ambiente jazzistico bolognese: Teo Ciavarella, Silvia Donati, Pasquale Mirra, Piero Odorici e Jimmy Villotti.

Ammirevole il valore musicale, ma della serata è il caso di sottolineare soprattutto l’atmosfera di grande festa che ne è conseguita, con la rievocazione di  gustosissimi aneddoti da parte di Checco Coniglio e dell’inossidabile Cicci Foresti, che da poco ha lasciato la sua amata Africa per tornare stabilmente nella sua città natale.

Ancor più numerosi dello scorso anno sono stati i jazz club coinvolti dal festival, a cominciare dagli storici Torrione di Ferrara e Cantina Bentivoglio di Bologna. Al Binario 69, circolo aderente all’Arci in cui i set non cominciano prima delle 23, fra gli altri appuntamenti va segnalato quello del Cal Trio, del quale è appena uscito il nuovo cd della Caligola. Il leader, compositore e chitarrista Domenico Caliri era coadiuvato dai fedeli e pertinenti compagni di viaggio, Stefano Senni al contrabbasso e Marco Frattini alla batteria. Di fronte a un pubblico giovane e concentratissimo, l’aspetto che è prevalso nella musica di Caliri sono state le raffinate, evocative strutture compositive, spesso dai contenuti autobiografici, ora venate di malinconia ora più determinate.

La Big band del Conservatorio di Bologna (foto Daniele Franchi)
La Big band del Conservatorio di Bologna (foto Daniele Franchi)

Appunto in un club ha fatto capolinea il Bologna Jazz Festival 2018, anche se può sembrare una conclusione un po’ paradossale e poco protocollare; ma anche una simile scelta fa parte della casualità del possibilismo. Al centrale Bravo Caffè il Koppel – Colley – Blade Collective, all’ultima tappa del loro tour in Europa e Medio Oriente, ha dimostrato la sua coesa esperienza derivata da sei anni di attività assieme, con un cd alle spalle e un secondo in preparazione per il 2019. Su un repertorio di original, ma comprendente anche un traditional, un brano di Don Cherry e l’ellingtoniano In A Sentimental Mood, è spiccato il lavoro della ritmica di Scott Colley e Brian Blade, magistrali sia nei collettivi che negli assoli per concepimento e conduzione degli interventi, per sound e dinamiche. Ma è sul meno noto dei tre che vale la pena di spendere due parole: il contraltista Benjamin Koppel, nato a Copenaghen quarantaquattro anni fa. La sua pronuncia forbita e insinuante è infarcita di frammentazioni e contrasti: scale di note velocissime fanno seguito a sospensioni e rallentamenti; un volume pieno e stentoreo si alterna a sussurrati ripensamenti; infine glissando, frullati e smorzature denotano una tecnica smaliziata. Un’ultima annotazione confortante: come al Binario 69, anche in questo caso la concentrazione del pubblico giovanile era assoluta e le condizioni d’ascolto ottime (qualità rare quando si parla di club).

Libero Farnè