Bobby Carcassés: «È difficile resistere alla magia di Cuba»

Dopo martellanti sollecitazioni, il poliedrico Carcassés ci riceve nel suo appartamento di Playa, distretto dell’Avana.

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Bobby Carcassés e Pancho Terry
Bobby Carcassés e Pancho Terry

Dopo martellanti sollecitazioni, il poliedrico Carcassés ci riceve nel suo appartamento di Playa, distretto dell’Avana. Il tempo di presentargli Musica Jazz e ci ritroviamo circondati da oggetti d’arte, dipinti, foto, cd e lp che raccontano il jazz a ogni latitudine, oltre che da collinette di libri tra i quali spiccano titoli di yoga e spiritualità. Stiamo meditando su quelle copertine mentre Bobby abbassa il telefono per la terza volta e, quando si rende conto che si fa sera, ci mette fretta perché sta attendendo due musicisti nordamericani.

Partiamo subito dagli Stati Uniti, dove negli ultimi anni sei tornato spesso e…
… e dove recentemente sono andato a promuovere l’album «De La Habana a Nueva York» (Vero) nell’ambito di concerti – anche a Miami dove non ero ancora stato – abbinati a esposizioni di pittura, arte intrapresa precocemente come la musica. Con questo cd festeggio più di cinquant’anni di attività e allo stesso tempo ho voluto celebrare grandi maestri. L’idea scaturì nel 1993 a New York, dove tornai per la seconda volta dopo 35 anni per un concerto, al termine del quale Mario Bauzá, assieme a Tito Puente, venne a complimentarsi. E così la title track del disco la dedico a Bauzá; Blues para Chano, un blues venato di rumba, a Chano Pozo e Babalu all’impareggiabile Miguelito Valdes. Summer time, invece, la canto per un mio strepitoso omonimo: Bobby McFerrin.

Sei nato in Giamaica o a Cuba come riportava il dizionario di Orovio? Poiché sul tuo conto si leggono notizie contraddittorie, puoi regalarci un tuo autoritratto?
Vero, per anni sono circolate informazioni imprecise, ma ora certi errori sono scomparsi grazie a pubblicazioni e articoli di Acosta e di Radames Giro. Comunque per togliere ulteriori dubbi ecco la mia carta d’identità: Roberto Arturo Carcassés Cuza, sono nato il 29 agosto 1938 a Kingston, perché mio nonno lavoro n come Console di Cuba dal 1936 al 1938. I primi quattro anni sono giamaicani e quando arrivai a Cuba par lavo soltanto inglese, che dimenticai presto per lasciare posto alle parolacce in spagnolo e ai cubanismi della strada. In cambio, dai miei zii, imparai i segreti della rumba de cajón, suonando casse di legno o i mobili di casa, e a sei anni ero un piccolo rumbero. Dopo La Esperanza ci trasferimmo nel 1946 a Santa Clara. Qui, a livello dilettantistico, vinsi diverse gare canore di Radio Cmhw; nel 1955 debuttai al Teatro de la Caridad con la compagnia di Enrique Arredondo, un grande artista comico. Nel 1956 vado a vivere all’Avana, studio con il maestro Jose Ojeda per cantare zarzuela, romanze e opera, pezzi come Vesti la giubba, Torna a Surriento, O sole mio, A vucchella, il repertorio di Enrico Caruso, mio primo idolo. Mi aggiudicai il concorso nazionale «La corte suprema de l’arte» dell’emittente CMQ, cantando Flor roja de los gavilanes. Nello stesso anno debutto professionalmente con il quartetto di Bobby Collazo e nel 1958 entro nel mega-show del cabaret Tropicana, tra star mondiali della canzone e del jazz.

Bobby Carcassés e Pancho Terry
Bobby Carcassés e Pancho Terry – La Habana, 12 dicembre 2009, Museo Bellas Artes (foto di Gian Franco Grilli)

Senza dubbio un ottimo tempio per cominciare la carriera di showman…
Mi influenza molto, ma è un cammino che verrà dopo. Intanto da quel palco, pochi mesi dopo, spiccai il primo volo per New York con lo spettacolo Rumbo al Waldorf del Tropicana, la cui orchestra era diretta da Armando Romeu, favoloso musicista che mi aiutò a capire il bebop, lo scat eccetera. Conobbi Machito, Bauzá, Patato Valdes, il Birdland, Buddy Rich, cantanti come Ella Fitzgerald e Jon Hendricks. Torno all’Avana e continuo a lavorare al Tropicana. Il primo giorno del 1959 i barbudos vanno al potere; dopo un po’ comincio a cantare all’Hotel Riviera fino alla trasferta con il coro a cappella di Nilo Rodríguez al Festival mondiale della gioventù di Vienna. La tournee proseguì nell’Europa dell’Est, e quando i miei colleghi rientrarono in patria io mi fermai a Parigi per viverne la scena jazzistica animata da Kenny Clarke, Lou Bennett, Bud Powell, con cui ho suonato. Ma guadagnavo esibendomi in night club come l’Elefante Bianco e Club Samba con varie orchestre, tra cui quella del batterista trinidadiano (con cittadinanza inglese) Benny Bennett. dove se non ricordo male c’era anche un giovane Michel Portal. Nel dicembre 1961 ritornai a Cuba, ma prima, assieme al percussionista cubano Pacolo, inaugurai il Club Capriccio di Roma. Un gruppo faceva jazz mentre il nostro intonava ritmi cubani.

Autenticamente cubani, o alla maniera molto discussa di Xavier Cugat che…
…no, no, il nostro era un repertorio di cha cha cha (era l’epoca d’oro), mambo, son, guaracha o rumba autentica, non quella musica erroneamente spacciata per rumba da Cugat. Era un buon musicista commerciale ma le sue proposte erano confuse. A Cuba lui suonava un bolero lento e la chiamava rumba.

Quindi ritornasti a Cuba mentre altri se ne andavano.
Esatto, lasciai la bella vita parigina per stare tra la mia gente che pochi mesi prima aveva respinto l’attacco yankee alla Baia dei Porci. Nel 1962, anno nerissimo per la crisi dei missili, lavorai ancora nei club. Nel 1963 collaborai con il cineasta messicano Alfonso Arau alla realizzazione del Teatro Musical de La Habana, una vera pietra miliare della cultura cubana, e in quella orchestra c’erano tra gli altri Leo Brouwer, Federico Smith, Chucho Valdés e Paquito D’Rivera. Tre anni dopo e paradossalmente, dalle tendenze moderne del teatro – interpretando Grotowski, Stanislavskij e Artaud – passai come commediante al linguaggio antico del Teatro Martí, un teatro vernacolo, comico. Una volta imparata l’arte di improvvisare, di tenere in pugno il pubblico e non annoiarlo, decisi di fare lo showman. Montai uno spettacolo da solista dove cantavo rumba mentre suonavo tre congas; un po’ di son tradizionale, satira e con il pianoforte o il contrabbasso temi jazzistici, Misty o blues di Muddy Waters.

Cortesia Bobby Carcassés

Quando ti sei avvicinato al jazz?
A metà degli anni Cinquanta con Armandito Zequeira, un maestro che mi ha insegnato le basi del jazz, lo swing, a suonare la batteria, gli accordi sul pianoforte, gli accenti del jazz spostati rispetto a quelli dei ritmi cubani, e a dominare entrambi contemporaneamente, la cosa più difficile. Da lì cominciai a incorporare gli strumenti, i ritmi cubani e il bebop nell’improvvisazione vocale, il mio principale strumento, che a Cuba mi ha procurato il titolo di «re dello scat». Poi gli anni Settanta sono cruciali per me: mescolo rumba, mambo, guajira con blues e bebop; creo Afrojazz, in cui si sono formati molti giovani jazzisti; e nel 1979 la Casa della Cultura del municipio Plaza mi affida la direzione di una descarga o jam session mensile. Mi impegnai al massimo, coinvolsi tutti i jazzisti e scoprii nuovi talenti.

L’iniziativa ti permise anche di riallacciarti al Club Cubano de Jazz,  (CCJ)  o era complicato guardare indietro?
Il collegamento nacque spontaneo, perché al mio fianco trovai, tra gli altri, Roberto Toirac, Leonardo Acosta, Horacio Hernández, triade del mitico CCJ che, tra il1958 e il 1960, organizzò nel club Habana 1900 dei concerti storici con Philly Joe Jones, Kenny Drew, Stan Getz, Zoot Sims, tanto per citare qualche nome. Durante le jam session alla Casa della cultura sentii l’esigenza di un festival del jazz, pur sapendo che questa forma espressiva non era molto ben vista dal potere politico. Non era vietato, ma il jazz era considerate musica del nemico, della Cia. Argomentai ad alcuni dirigenti che si trattava della musica dei neri sfruttati degli Stati Uniti, e approvarono. E così nel dicembre 1980 si inaugurò il festival Jazz Plaza, di cui fui presidente per due anni. All’inizio chiamai solo jazzisti cubani tra i quali Emiliano Salvador, Afrocuba, Afrojazz e C. Emilio Morales, e per attrarre gente pensai di invitare personalità del calibro di Omara Portuondo, Elena Burke, Nico Rojas, Cesar Portillo de La Luz, J. Antonio Mendez, e anche Juan Formell y Van Van, orchestra di musica da ballo. Vero che trattavano altri stili, ma sapevano improvvisare e io sono sempre stato convinto che il jazz e la musica cubana hanno molti elementi comuni. Il Jazz Plaza assumerà dimensione internazionale alla terza edizione con Tania Maria. Poi arrivarono Dizzy Gillespie, Charlie Haden, Carmen McRae, Steve Coleman, Max Roach, Flora Purim, Ronnie Scott, Oliver Nelson, Tete Montoliu eccetera. E così contra viento y marea, superando le difficoltà del Paese – dovute in parte all’embargo statunitense ma anche a un bloqueo interno – il festival, ora presieduto da Chucho Valdés, è sempre andato avanti, tranne un paio di pause.

E spente le luci del festival, ma anche prima, come e dove ci si nutriva di jazz? E ora come vanno le cose? Puoi  tratteggiare una piccola mappa dei locali storici?
Hai toccato un tema che mi tormentò negli anni Ottanta. Mi rendevo conto che, finito il Jazz Plaza, per tutto l’anno all’Avana non c’era jazz, mentre percepivo tra i musicisti e nell’ambiente artistico l’esigenza di jam, delle Peñas. Nella Casa della Cultura di Plaza, per un certo periodo, riuscii a proporle una volta la settimana. Cessate queste fondammo il Club Maxim, noto anche come Chano Pozo Club su richiesta di Gillespie. Lì suonarono tutti, da Mal Waldron a Roach . Ma ancora prima, dal 1973 al 1976 circa, al Rio Cafe si tenevano descargas con tutti, Chucho, Paquito, Arturo Sandoval, J. Pablo Torres, Leonardo, Nicolas Reinoso. Attualmente c’è jazz a La Zorra y El Cuervo e al Jazz Cafe, e in quest’ultimo durerà poco.

Bobby Carcassés «De Habana a NY»
Bobby Carcassés «De Habana a NY»

In questa utile ricostruzione del jazz di ieri e di oggi, mi accorgo che non hai inserito le due delegazioni statunitensi che aprirono le porte internazionali al jazz cubano. Cosa ricordi di quegli incontri?
Sì, due momenti importanti, ma crearono molto malessere in molti di noi. I servizi di sicurezza dello stato e i massimi dirigenti manovrarono politicamente la visita del 1977 dei croceristi e jazzisti nordamericani con Gillespie, Earl Hines e altri. lrakere, il gruppo di maggior prestigio, fu invitato. Esclusero quasi tutti gli altri, da Afrocuba di Nicolas Reinoso al mio gruppo. Gli organizzatori preferirono  invitare  agricoltori o gente che non sapeva di jazz, e noi insistemmo per conoscere i motivi di tutto cio. Risultato: in un locale riuscimmo a vedere l’evento attraverso un video. L’anno dopo con l’arrivo di artisti della Fania All Stars, Rubén Blades, Willie Colon, o altri come Weather Report, Kris Kristofferson, Billy Joel, si comportarono allo stesso modo. Scelte illogiche, fatte con un punto di vista particolare. lo ti parlo in modo schietto perché non sopporto le scorrettezze: ho deciso di vivere a Cuba ma non a bocca chiusa. Esprimo le mie libere opinioni sui problemi e nessun dirigente mi ha mai richiamato per questo. E oggi le cose si dicono ancora in modo più chiaro.

Ma se è  cosi, allora perché tanti tuoi colleghi hanno lasciato l’isola?
Io rispetto le scelte di ognuno, ma tra costoro c’è un po’ di tutto: forse molti avevano paura di parlare, non so; altri saranno stati spinti da motivi artistici o economici. Io sono uno caparbio, ho un carattere forte, e non me ne andrò da questa terra. Perché dovrei farlo, dato che ho dei vantaggi? Poi ho già vissuto all’estero, sono stato sposato in Bulgaria, ho lavorato a Parigi, e poi… Cuba è magnetica, rapisce, non lo dico io ma lo dimostrano gli stranieri che ritornano più volte pur essendo spesso trattati male e con la propaganda negativa contro Cuba. È difficile resistere a questa magia. Qui c’è un clima perfetto, è il mio paese e…

…e nella tua città sei un principe. Tanto che Cristina Cabreras e José Cepeda, artisti di Santa Clara, raccontano in modo divertente che quando ti ospitano mandi in tilt l’organizzazione, ma fanno di tutto per riaverti, sei un figlio prediletto…
Sì, mi muovo con una grande famiglia e allora… [ride] ma ritorno là, sempre gratuitamente, tutte le volte che mi chiamano perché sogno spesso il luogo dove sono cresciuto. Tonada a Santa Clara, una mia composizione incisa in «Bembedoble» (Colibrì,2008), è un atto d’amore per questa terra. E terminando il discorso di prima, è tanto grande l’affetto per Cuba da non poter vivere all’estero per molto tempo. Ripeto, ho dei vantaggi, e lo stesso vale per mio figlio Roberto – ottimo musicista, i cui colleghi se ne sono andati tutti – che va a suonare in tutto il mondo ma torna sempre all’Avana. Come fa Chucho Valdés, vincitore di tanti Grammy che però continua a vivere qui. E come si spiega questo fatto?

E sul dibattito Latin jazz, pan-Latin jazz o jazz afro-cubano, qual è il tuo parere?
Oggi si dice Latin jazz, perché c’è un’evoluzione, l’ombrello accoglie altri ritmi del continente, ma comunque si sta parlando di un jazz che ha una percentuale molto maggiore di ritmi afro-cubani che di altri linguaggi caraibici come bomba, plena, joropo o cumbia. Un bel dilemma, e se penso ad altri che parlano di jazz Afro-Latin non si finisce più.

Concludendo. Dove trovi alla tua età tanta energia per vivacizzare ancora il tuo trasversale viaggio artistico decollato con rumba e zarzuela e ora concentrato su pittura, scat, jazz, conga e flicorno?
In gioventù dallo sport. E poi dallo yoga in cui sono immerso da oltre quarant’anni e da tecniche di meditazione che pratico da trenta. Sono devoto di Paramanahsa Yogananda e seguo i ritiri spirituali della sede di Los Angeles. Iniziato in Krya, credo nella reincarnazione: lo spirito viene da un’altra vita. Mozart era un talento naturale, a quattro anni suonava il pianoforte, a cinque componeva. Difficile spiegare tutto questo. Quindi, tenendomi ben lontano da paragoni, voglio dire che il talento innato si può certamente avere ma bisogna arricchirlo, svilupparlo in vari modi. lo credo di riuscirci mediante l’energia e la spiritualità che sento.

[da Musica Jazz, settembre 2010]