Bija: la vera ispirazione è la libertà

Il trio salentino sviluppa una ricerca continua, esplorando tra jazz, rock, progressive e musica etnica, con i piedi ben saldi nella tradizione. Ne abbiamo parlato con il trombettista Marco Puzzello.

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I Bija, trio salentino formato da Marco Puzzello (tromba), Gabriele Di Franco (chitarra ed elettronica) e Francesco Pellizzari (batteria e percussioni), dopo l’esordio discografico con l’album eponimo, continuano nella sperimentazione e ricerca. Ne parliamo con Marco Puzzello.

Marco, inizierei con lo spiegare il nome del vostro gruppo: Bija, cosa significa e perché avete scelto proprio questo nome?
Cercavamo una parola che rappresentasse la nostra visione della musica e che riassumesse le nostre intenzioni artistiche. Bija è un termine antico, complesso, denso di significati simbolici e racchiude in sé il processo di eterna rinascita e mutamento. Occorreva un nome che ci ricordasse in ogni momento la rotta da seguire, che ci fornisse quotidianamente le suggestioni necessarie per tracciare insieme i nostri orizzonti musicali. Bija, secondo alcune filosofie orientali è il suono primordiale, perpetuo, da cui ha avuto vita ogni cosa, è la vibrazione più intima di tutti gli esseri viventi e non.

Come è nato il vostro sodalizio?
Il caso ci ha fatti incontrare. Forse era un concerto, forse una cena, Alla fine dell’esibizione (musicale o culinaria che fosse) abbiamo avvertito, indistintamente, un forte senso di complicità, gratitudine e gioia e intuimmo facilmente che questo si sarebbe, di lì a poco, tradotto in musica. Ma forse era solo una sensazione dovuta alle pance piene. Ognuno di noi, in quella fase, era alla ricerca di un luogo ideale in cui esprimersi e Bija era proprio quel luogo che stavamo cercando. Sosteniamo, ora come allora, che la musica sana nasca in una famiglia in cui c’è ascolto, gioia, rispetto e valorizzazione delle diversità; è per questo che ci siamo scelti, in base alla predisposizione individuale all’apertura, al dialogo e alla ricerca personale interiore, prima che musicale.

Un trio anomalo perché fate a meno del basso. Una scelta casuale o causale?
Probabilmente in altre zone d’Europa non saremmo considerati così atipici, tutto dipende dal background culturale e musicale di chi ascolta. Nel nostro caso la scelta di una line-up insolita ha rappresentato l’opportunità di uscire dalla comfort zone; ma sicuramente ha anche prevalso la scelta delle «persone» sui «musicisti». La comune spinta verso il non comune, verso il lontano, verso il non suonato, rappresenta dunque una ricerca artistica e personale che è alla base, ormai, di tutte le nostre creazioni.

Per il vostro primo disco avete utilizzato il sistema del fund-raising e, in particolare, Musicraiser. Mi chiedo: se il pubblico è sensibile tanto da finanziare gli artisti per dare luce a un lavoro discografico, perché poi li tradisce non acquistando dischi? C’è qualcosa di sbagliato nel sistema discografico?
Sì, noi abbiamo utilizzato il metodo del fund raising riscuotendo un ottimo successo, grazie però ad un’opera di sensibilizzazione non indifferente che crediamo sia alla base della diffusione culturale e quindi musicale. In particolar modo in un genere ritenuto di nicchia come il nostro. Io penso che non ci sia un tradimento volontario, ma oltre a suonare, oggi più che mai il musicista ha la missione di «educare» un pubblico forse ineducato, o diseducato all’ascolto dalla tanta musica commerciale che c’è in giro. Il mercato discografico è in crisi e programmi come talent-show e quant’altro hanno spazzato via ogni possibilità che un gruppo «alternativo» venisse fuori, anche per quel che basta a farci credere in modo attivo in quello che suoniamo. Forse questo all’estero non succede o quantomeno si dà a tutti di esprimere la propria musica. Infatti, la nostra etichetta discografica, non a caso, è britannica.

A proposito della vostra musica, quali sono le vostre fonti di ispirazione?
Le fonti di ispirazione sono molteplici, partono dagli stati d’animo, dagli avvenimenti, dalle energie che si sviluppano intorno a noi ogni giorno e in ogni occasione. Ecco perché molti brani sono strutturati (oppure non strutturati) in diversi movimenti, legati da un filo conduttore che è la scelta di vivere di musica. Cerchiamo la narrazione attraverso le note, attraverso la melodia che esprime il canto, ma anche la libertà con l’improvvisazione. Sì, forse la vera ispirazione è la libertà o la ricerca della libertà.

Nelle vostre composizioni risuona molto l’Africa e la melodia è sempre tenuta in debita considerazione; d’altro canto come lo è nelle strutture anche più tribali africane. Pensi che il jazz sia molto in debito nei confronti dell’Africa? E l’Italia?
Sì, credo che il jazz sia un fiore nato dall’Africa, come tutto del resto. La melodia è per noi una chiave che accede alle emozioni più profonde, a quella parte mistica che risiede in ognuno di noi. Parte dal centro del corpo, come il jazz stesso nasce dal centro del mondo: Madre Africa. Noi esseri umani siamo costretti a catalogare, definire, dare una forma, un senso, una spiegazione, mentre la musica si spiega da sé e in questo possiamo imparare moltissimo dagli africani. Loro non si servono della musica, ma grazie ad essa accedono a dei livelli di elevazione spirituale profonda. E’ un modo per pregare, essere grati, e forse noi europei pecchiamo un po’ in questo, viviamo la musica molto all’esterno, in superficie. Siamo poco centrati con l’idea e il concetto di spiritualità musicale. L’Italia? C’è una domanda di riserva?

A proposito: se tu dovessi posizionare il vostro disco in un negozio dischi, quale scaffale sceglieresti? Jazz o altro?
Esiste lo scaffale Musica? Ci definiscono jazz, ma noi non vogliamo essere così presuntuosi da dirlo, ci definiscono ambient, ma poi abbiamo anche un po’ di rock, prog ed etno. Forse World Music? Abbiamo considerato nella nostra composizione l’idea che non esiste un genere nel 2017 e che la musica è una sola, e che nessuno può rinchiuderla. Abbiamo l’idea che esiste l’arte confezionata e l’arte profonda. Noi, seppur con difficoltà a venir fuori, abbiamo scelto di vivere la nostra musica con l’anima. E qui credo che non si possa definire. È come l’universo dove tutto è in profonda sinergia, collegato con ognuno di noi attraverso migliaia di leggi fisiche; il rapporto fra le note è matematico ma il risultato di questa formula non è univoco ma proviene dalle infinite sfumature di ogni ascoltatore.

L’elettronica e i suoni ambient costituiscono gli affreschi più moderni. Pensi sia il mezzo giusto per avvicinare i più giovani al jazz e musiche limitrofe? Ma, a proposito di ciò: perché i giovani sono, per lo più, refrattari al jazz?
Sì, forse l’elettronica è un modo non solo per avvicinare i giovani al jazz, ma anche un modo per accettare che essa sia parte integrante dell’espressione musicale moderna. È un mondo complesso, indefinito, che forse ci può collegare attraverso la nostra «elettronica umana», alla vibrazione più pura. Forse i giovani sono refrattari al jazz inteso come la teorizzazione dell’improvvisazione in quanto c’è una scarsa educazione all’ascolto. Noto infatti che si è estremizzato il concetto della teoria jazz, rendendola molto vicina al classicismo, alla perfezione assoluta. Studiare il passato è estremamente importante e non possiamo farne a meno, ma musicisti come Charlie Parker, Chet Baker, John Coltrane e tantissimi altri hanno creato un linguaggio e quindi noi ora dovremmo fare la stessa cosa, oltre a studiarli per tutta la vita. Ad esempio, non ho mai compreso la frase attuale «laureato in jazz».

Come trombettista utilizzi nuances tipiche dei suoni del Nord Europa. Africa a parte, è questo l’universo musicale di riferimento? Diciamo tra Dhafer Youssef e Nils Petter Molvaer…
Devo confessarti una cosa molto strana. Conosco Nils ma non conoscevo Dhafer! Il pomeriggio in cui mi hai inviato l’intervista, per puro caso, di fronte a un tramonto evocativo, ho ascoltato la meravigliosa musica di questo artista (puoi immaginare la mia gioia), e successivamente ho letto le domande! Questo mi fa molto piacere perché hai avvertito qualcosa di cui non ero a conoscenza, ma che mi rispecchia molto. Il riferimento quindi è personale, è quella la mia ricerca attuale, trovare la mia musica. Sono attratto dall’estrema sensibilità della musica orientale, in cui senti vibrare anche la pelle, e dall’introspezione della musica nord europea, dove la ricerca del suono è notevole. Mi affascina l’idea di «de-trombizzare» la tromba per scoprire nuovi suoni.

Marco, hai creato a Taurisano una bella realtà: l’Officina degli Artisti. Ce ne vorresti parlare?
OdA è il frutto dei sacrifici, del credere fermamente nella musica e nella sua diffusione che considero una vera e propria missione. Non è nulla di nostra proprietà, per questo considero la mia arte un dono che va condiviso sia didatticamente che umanamente. OdA è un’associazione di musica e arte inaugurata il 23 novembre 2013 dove si tengono numerosi corsi: canto, tromba e ottoni, pianoforte, chitarra classica ed elettrica, basso elettrico, sax, scrittura creativa, canto rap, armonia e storia della musica, musicoterapia. Tra le numerose attività che si svolgono ci sono il cineforum, jam session, masterclass, corsi di artigianato, presentazioni di cd e libri. Sorge in un ambiente profondamente simbolico, un’ ex officina meccanica dove lavorava mio padre, un locale di oltre 100 anni in cui tanta energia ha preso forma, quasi ad evidenziare che laddove si riparavano motori e biciclette ora, attraverso l’insegnamento della musica, si «riparano» le asprezze della vita, si educa al bello, si accende la passione e il gusto per l’arte. E come dice il giornalista Antonio Sanfrancesco: «Un luogo dove la musica è sempre al di là, irraggiungibile, eppure sempre dentro di noi, presente, operante, viva. Un luogo che rende felice chi può comunicarla ancora con pienezza; felice anche chi soltanto può tendersi a riconoscerla, a ripensarla, a far sentire che esiste».

Bija a parte, c’è anche altro nella vita artistica di Marco Puzzello? Altre collaborazioni?
Sì, ultimamente sto lavorando su un progetto strumentale, con suoni elettronici, voce e altro tutto in forma autonoma. Un altro nuovo progetto, CH4 il nome (formula del metano), insieme a tre musicisti salentini formidabili, con i quali stiamo lavorando sulla produzione di musica inedita.

Domanda di rito per chiudere questa chiacchierata: cosa è scritto nell’agenda dei Bija?
Stiamo lavorando su nuovi brani per il prossimo disco e il nostro obiettivo è quello di suonare all’estero e portare in giro la nostra musica quanto più possibile, condividerla e lasciare qualcosa sul nostro cammino.

Alceste Ayroldi

Foto: Roberto Rocca