Bergamo Jazz 2019, terza parte

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Bergamo Jazz
Jacky Terrasson alla Sala Piatti, foto Luciano Rossetti-Phocus Agency

Bergamo, varie sedi, 24 marzo

La quarta e conclusiva giornata del festival si è dipanata attraverso nuove proposte, intelligenti riletture jazzistiche e intrattenimento di qualità. Alla prima categoria appartiene Sara Serpa, protagonista di un concerto in duo con il chitarrista André Matos nello scrigno acustico dell’Oratorio di San Lupo. La vocalist portoghese, residente a New York dal 2008, è dotata di un timbro esile, uniforme e di un’estensione limitata, cui sopperisce con un efficace controllo delle risorse e una certa dose di espressività. Il duo produce melodie fresche, a tratti dal sapore ingenuo (lontanamente paragonabili alla poetica di Björk), da cui nascono improvvisazioni vocali condotte su arpeggi trasformati in loop. Serpa sfrutta anche testi tratti da poesie di William Blake e da un discorso di Amílcar Cabral, fautore dell’indipendenza della Guinea Bissau e di Capo Verde. Piuttosto che nelle interpretazioni (comunque distanti dai luoghi comuni) di All of You, My Old Flame e All Alone, la sua vocalità risulta valorizzata dall’uso della lingua madre e da improvvisazioni basate su giochi ritmici secondo modalità care alla connazionale Maria João o su dialoghi sperimentali con la chitarra distorta. Del resto, questa artista ha inciso per etichette come Clean Feed e Tzadik.

Sara Serpa e André Matos, foto Luciano Rossetti-Phocus Agency

Organizzato in collaborazione con il Jazz Club Bergamo e collocato nello splendido spazio della Sala Piatti, il piano solo di Jacky Terrasson ha dimostrato come si possano affrontare pagine della tradizione jazzistica senza cadere nello scontato. In base a tali presupposti, la linea tematica di Besame mucho affiora progressivamente – smembrata e centellinata – da una approfondito lavoro sul registro grave. Analogo trattamento viene riservato a Over the Rainbow, mentre il latente retroterra africano di Caravan è accentuato da un fuoco percussivo (con tanto di cordiera percossa nell’introduzione) poi trasformato in stride. L’azione febbrile della mano sinistra sulle ottave basse scava quindi negli interstizi delle dodici battute del blues. Terrasson ama molto anche interpolare spunti e materiali diversi. Pertanto, Lover Man scivola su un arpeggio e si connette a If I Should Lose You con impennate di accordi sferzanti. Segmenti del tema di Love for Sale si intersecano con il riff funk di Chameleon di Herbie Hancock, mentre il medley Well You Needn’t/Just a Gigolo pone l’accento sul legame tra Thelonious Monk e Fats Waller. L’influenza di Bill Evans, combinata con le origini francesi (per parte di padre) del pianista, emerge da atmosfere che evocano Debussy e Satie, ma anche dalle versioni di Sur le ciel de Paris e La vie en rose, mentre i frammenti tematici di Autumn Leaves scaturiscono da un furioso arpeggio sul registro grave, certificando ulteriormente il saldo legame tra patrimonio afroamericano e bagaglio europeo.

Jacky Terrasson, foto Luciano Rossetti-Phocus Agency

Come dimostra il recente «Opposites», Quintorigo ha abbandonato le monografie (Mingus, Hendrix, Zappa) per esaminare un repertorio più eterogeneo fatto di standards jazzistici, brani rock e composizioni originali. Questo ha comportato anche l’ampliamento dell’organico: ad Andrea e Gionata Costa (violino e violoncello), Valentino Bianchi (tenore e soprano), Stefano Ricci (contrabbasso) si sono aggiunti Gianluca Nanni (batteria) e, in alcuni brani, Alessio Velliscig (voce). Il loro concerto al Teatro Sociale ha confermato pregi e limiti dell’operazione. Le composizioni originali (vedi Opposite Attract e Fuck the Bank) si fanno preferire per le agili architetture, l’ingegnoso gioco di incastri e certe tinte zappiane. Godibili, ma anche un po’ scolastiche, le esecuzioni jazzistiche: Blue Rondo à la Turk di Dave Brubeck, Stolen Moments di Oliver Nelson e il medley monkiano Well You Needn’t/Think of One. Dotato di voce potente e presenza scenica, Velliscig diventa protagonista in Alabama Song, con qualche inevitabile rimando a Jim Morrison, in una Space Oddity di David Bowie ricca di pathos e in una corrosiva Killing in the Name dei Rage Against the Machine. Contrasti forti, talvolta anche stridenti, tra mondi lontani. Che piaccia o meno, questa è la formula di Quintorigo: musicisti di estrazione prevalentemente classica che si divertono a misurarsi con repertori diversi.

Quintorigo, foto Luciano Rossetti-Phocus Agency

La conclusione del festival, per il concerto serale al Teatro Creberg, è stata affidata a Manu Dibango. Era lecito nutrire qualche perplessità sia per i contenuti (il programma era intitolato African Soul Safari) che per l’età avanzata del protagonista. Tuttavia, l’85enne sassofonista camerunense ha dimostrato di non aver perso l’antico smalto. Coordina le esecuzioni con precisione implacabile, dando vita a un meccanismo perfetto in cui confluiscono, jazz rock, funk, afrobeat e ritmi afrocaraibici in una miscela lussureggiante e contagiosa. In questo contesto spiccano gli intrecci poliritmici, la dialettica chiamata-risposta tra le frasi disegnate al contralto e le melodie delle bravissime coriste (Isabel González e Valérie Belinga) e i continui scambi tra ritmica – Raymond Doumbé al basso elettrico, Guy Nwogang alla batteria -, chitarra (Patrick Marie-Magdelaine) e tastiere (Julien Agazar). L’impatto è coinvolgente ed invita a battere il tempo o ballare, in un corretto equilibrio tra retroterra culturale africano, mondo latino e Occidente, ritmi africani, afrocaraibici e segmenti della musica di consumo.

Manu Dibango e il tastierista Julien Agazar, foto Luciano Rossetti-Phocus Agency

Dalla 41esima edizione del festival si può trarre un bilancio complessivamente positivo, rafforzato anche da altri dati di fatto. Primo fra tutti, l’interesse riscosso dalla rassegna Scintille di Jazz, anche quest’anno curata da Tino Tracanna con lo scopo di mettere in evidenza giovani e validi musicisti locali o comunque lombardi. Nella fattispecie, il trio del pianista Ermanno Novali, il quartetto Dugong, il duo Eleonora Strino-Giulio Corini, il quartetto del sassofonista Massimiliano Milesi con il nuovo progetto Oofth, il duo di clarinettisti Novotono e il quintetto I Am a Fish. Peccato solo che la collocazione degli eventi nel tardo pomeriggio o nella tarda serata, così come certe sovrapposizioni, non abbiano consentito a tutti gli interessati di assistervi. In secondo luogo, bisogna registrare anche un consistente aumento del pubblico, così come vale la pena di sottolineare le iniziative collaterali come il Bergamo Film Meeting e gli incontri didattici con le scuole promossi dal CDpM.

Con il quarto e ultimo anno del suo mandato Dave Douglas lascia l’incarico di direttore artistico – svolto con competenza ma soprattutto con una carica umana che gli ha permesso di instaurare un rapporto cordiale con il pubblico – a Maria Pia De Vito, reduce da analoghe esperienze nell’ambito del festival di Ravello. Per l’edizione 2020, che purtroppo vedrà ancora indisponibile il Teatro Donizetti, è dunque lecito aspettarsi sorprese.

Enzo Boddi

Dave Douglas e Maria Pia De Vito, foto Luciano Rossetti-Phocus Agency