Bergamo Jazz, seconda parte

Qualità e varietà di proposte per una degna conclusione del festival

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Il quartetto di Franco D'Andrea e Dave Douglas - Foto di Luciano Rossetti © Phocus Agency -

18 settembre, Auditorium della Libertà: Hobby Horse

18 settembre, Dieci10: Francesca Remigi Quartet

18 settembre, Teatro Donizetti: Franco D’Andrea-Dave Douglas Quartet

19 settembre, Sala Piatti: Vocione, O-Janá

19 settembre, Teatro Sociale: Tinissima

19 settembre, Teatro Donizetti: Tigran Hamasyan Trio

Nelle giornate di sabato e domenica la quarantaduesima edizione di Bergamo Jazz ha offerto un’ampia varietà di proposte di alto livello qualitativo, tutte provviste di una forte identità e aventi come scopo precipuo la ricerca.

Hobby Horse – Foto di Luciano Rossetti © Phocus Agency

Questo è l’obiettivo perseguito fin dagli inizi dal trio Hobby Horse. L’indagine condotta da Dan Kinzelman (sax tenore e clarinetto basso), Joe Rehmer (basso elettrico) e Stefano Tamborrino (batteria) ingloba molteplici elementi: il lascito delle avanguardie jazzistiche riscontrabile nei tratti spigolosi e corrosivi delle ance; forme ritmiche e suggestioni timbriche – qui ridotte all’osso – derivate dal rock indipendente e dalle musiche di consumo; l’elettronica, impiegata da tutti e tre i componenti per spazializzare e dilatare il suono; armonie vocali e recitativi evocanti il poetry reading, come nel caso di Evidently Chickentown di John Cooper Clarke. L’azione del trio spazia dunque da figure ritmiche sferzanti e ossessive, bruscamente spezzate dai brucianti squarci aperti dalle ance, a sequenze elettroniche ipnotiche su cui si innestano le parti vocali, per poi approdare in aree rarefatte caratterizzate da un lavoro accurato su timbriche e dinamiche.

Francesca Remigi – Foto di Fabio Gamba / Phocus Agency

In barba all’antico detto Nemo propheta in patria, la 25enne batterista Francesca Remigi – bergamasca di Albino – si è recentemente imposta all’attenzione di pubblico e critica grazie all’album «Il labirinto dei topi» (Emme), inciso con il gruppo Archipélagos, a testimonianza delle varie esperienze maturate in campo internazionale dopo il percorso di apprendimento compiuto con Stefano Bertoli. Per Bergamo Jazz – più specificamente nell’ambito della rassegna Scintille di Jazz curata da Tino Tracanna – Remigi si è presentata alla testa di un quartetto formato da Federico Calcagno (clarinetti), Filippo Rinaldo (Fender Rhodes) e Stefano Zambon (contrabbasso). Francesca non è solo una batterista tecnicamente dotata e collocabile su una linea stilistica che ha come antesignano e caposaldo Tony Williams. È anche una compositrice arguta, che non esita ad accollarsi dei rischi. Le composizioni si basano su strutture polimetriche e cambi di direzione ed atmosfera, e prevedono temi rigorosamente strutturati ed eseguiti con precisione meticolosa, inserti dal taglio cameristico, passaggi informali su tempo libero. Calcagno, altro talento prepotentemente emergente, impreziosisce le esecuzioni con un approccio lungimirante e senza fronzoli, che da un lato richiama l’eredità di Eric Dolphy e, in qualche misura, di Anthony Braxton nell’impiego del clarinetto basso; dall’altro, sullo strumento in Si bemolle beneficia degli insegnamenti ricevuti da Michael Moore per il rigore del fraseggio, oltre a recare nel suono l’impronta di Tony Scott e Jimmy Giuffre.

Franco D’Andrea, Dave Douglas, Federica Michisanti e Dan Weiss – Foto di Luciano Rossetti © Phocus Agency

Il pubblico del Donizetti ha riabbracciato Dave Douglas, direttore artistico dal 2016 al 2019, in occasione di un evento da tempo agognato dal trombettista: condividere la titolarità di un quartetto con Franco D’Andrea, che nel recente passato lo aveva già ospitato nei suoi progetti. Nella circostanza Douglas ha messo a punto delle composizioni basate sul sistema intervallare creato da D’Andrea e divenuto oggetto di indagine. Per completare il quartetto sono stati coinvolti due musicisti assolutamente funzionali allo sviluppo di una dialettica interna: la contrabbassista Federica Michisanti (che due anni fa si era esibita proprio a Bergamo con il suo Horn Trio) e il batterista Dan Weiss, studioso di percussioni negli ambiti della musica classica indiana e della tradizione dell’Africa Occidentale. L’adozione di rapporti intervallari favorisce una costante circolazione e un fecondo scambio di segnali, richiami, cellule e frasi, e stimola Douglas a spingersi oltre e «liberare» il fuoco della propria creatività, ampliando le prospettive suggerite dall’approfondito lavoro di analisi di D’Andrea. Com’è sua prassi abituale, il pianista ama spaziare attraverso vari ambiti stilistici con un occhio sempre rivolto alla tradizione, concepita come strumento efficace per dare impulso a nuove invenzioni. Nelle sue mani la tradizione si trasforma in materia viva e palpitante, pane per i denti di una ritmica complementare pur nella diversità dei suoi componenti. Michisanti possiede uno stile asciutto e fortemente espressivo, ed è dotata di una cavata potente e di buone intuizioni melodiche. Weiss è un batterista atipico, provvisto di una concezione affine a quella di un percussionista, sempre pronto a variare le figurazioni e valorizzare anche gli aspetti timbrici.

Vocione: Marta Raviglia e Tony Cattano – Foto di Luciano Rossetti © Phocus Agency

Situata nella città alta, la splendida Sala Piatti ha accolto l’evento Voices, fortemente voluto da Maria Pia De Vito, direttrice artistica del festival e vocalist dalla personalità sfaccettata. Protagonisti di un duplice set due formazioni affatto diverse: Vocione (Marta Raviglia alla voce e Tony Cattano al trombone) e O-Janá, duo formato da Alessandra Bossa (piano, sintetizzatore ed elettronica) e Ludovica Manzo (voce e sampling). Raviglia e Cattano sono due jazzisti di comprovata esperienza che applicano il loro bagaglio a un repertorio variegato. Il trittico monkiano Monk’s Dream/Epistrophy/Evidence è scarnificato ma comunque pervaso di swing e a tratti sostenuto dallo scat. Una vocalità sperimentale di stampo europeo, ricca di nuances timbriche, offre una differente visione dello spiritual Sometimes I Feel like a Motherless Child o del Jobim di Fotografia. Con le sue sordine, i multifonici e un suono che abbraccia l’intera tradizione dello strumento Cattano finisce per risultare un’autentica voce altra e dialogante. A livello di vocalità e di prassi esecutiva O-Janá si colloca invece su un versante contiguo ai territori classico-contemporanei. L’elettronica e i campionamenti sono impiegati per dilatare, integrare e a volte moltiplicare le risorse a disposizione. Le sezioni maggiormente vicine alla forma canzone inducono un parallelo, forse non del tutto campato in aria, con la cifra espressiva di Björk.

O-Janà: Alessandra Bossa e Ludovica Manzo – Foto di Luciano Rossetti © Phocus Agency

Il quartetto Tinissima del sassofonista Francesco Bearzatti prosegue felicemente la serie di lavori monografici. Dopo gli album dedicati a Tina Modotti, Malcolm X e Woody Guthrie, «Zorro» – pubblicato l’anno scorso dalla CamJazz – sfrutta l’immagine del difensore degli umili e dei diseredati come utile pretesto per una suite multiforme che costituisce il lavoro più completo e forse migliore fin qui realizzato dal quartetto. La suite è composta da nove movimenti (concisi nella versione su Cd, più dilatati nelle esecuzioni dal vivo) caratterizzati da una grande varietà di contenuti. Su degli impianti modali – a tratti contrassegnati da un sentore di Spanish Tinge – si sviluppano ora melodie suadenti, ora sequenze concitate esposte in contrappunto dal sax tenore del leader e dalla tromba di Giovanni Falzone. Tant’è vero che alcuni passaggi possono addirittura richiamare indirettamente la dialettica tra Ornette Coleman e Don Cherry. Si colgono poi richiami alle tradizioni popolari, sia nell’occasionale ricorso a un flauto etnico che nel più frequente impiego del clarinetto in Si bemolle, altro strumento sul quale Bearzatti sa esprimersi con grande maestria, come degno erede europeo di Tony Scott. Sugli up tempo serrati spiccano le progressioni brucianti del tenore e il fraseggio nitido, squillante, da autentico virtuoso di Falzone, che sembra librarsi letteralmente in volo stimolando i colleghi della ritmica a dare l meglio di se stessi. Al basso elettrico Danilo Gallo costruisce anche pedali poderosi, a volte rafforzati da effetti, mentre il batterista Zeno De Rossi si cala perfettamente nelle strutture metriche cangianti con la sua proverbiale duttilità. La performance è stata accompagnata dal live painting di Davide Toffolo.

Tinissima – Foto di Luciano Rossetti © Phocus Agency

Quanto sia importante per un jazzista europeo trasporre il proprio bagaglio culturale nel lavoro compositivo e nel linguaggio dell’improvvisazione, lo dimostra il pianista Tigran Hamasyan, la cui cifra è sempre fortemente radicata nella sua identità armena. Spesso esposte vocalmente, le melodie dei suoi temi sono intimamente connesse alla tradizione popolare e ai canti liturgici. Il potente impianto ritmico elaborato con infallibile precisione insieme a Marc Karapetian (basso elettrico) e Arthur Hnatek (batteria) si basa su strutture polimetriche ricche di tempi dispari (7/4, 9/8, 13/8, 15/8). Inoltre, il trio opera su uno spettro dinamico piuttosto ampio. Con tocco cristallino Hamasyan contrappone figure ritmiche incalzanti, a tratti martellanti e ossessive, a liquidi arpeggi e fulminei fraseggi. Karapetian utilizza lo strumento a sei corde senza ricorrere a effettismi; al contrario, si cala agevolmente nei vertiginosi up tempo ed esibisce anche un’incisiva vena melodica. L’apporto di Hnatek si rivela molto efficace nelle divisioni metriche e nelle scomposizioni in cui adotta anche tecniche mutuate dal rock e dal jungle (nel tipico gioco serrato tra hi hat e rullante). In molte sequenze ritmiche il trio agisce come un corpo unico dando luogo a iterazioni (talvolta fin troppo marcate nella loro puntigliosa meticolosità) che di quando in quando evocano addirittura alcune delle migliori pagine del progressive. Il repertorio presentato era tratto da «The Call Within» (Nonesuch). Archiviata da tempo la fase di ragazzo-prodigio e ottenuti riconoscimenti e popolarità, a soli 34 anni Hamasyan dimostra di aver maturato una sua compiuta identità artistica.

Tigran Hamasyan Trio – Foto di Luciano Rossetti © Phocus Agency

Il concerto del trio del pianista armeno al Donizetti ha rappresentato la degna conclusione della quarantaduesima edizione di un festival – diretto da Maria Pia De Vito in maniera ineccepibile – ricco di proposte di qualità, privo di ammiccamenti al facile consenso e quindi degno della sua tradizione. Per quanto necessariamente contingentato in ottemperanza alle misure di sicurezza, il pubblico ha risposto con vivo interesse, confermando che a Bergamo si è consolidato uno zoccolo duro di appassionati. L’edizione 2022 – per la quale gli organizzatori contano di poter recuperare la prassi del doppio set al Donizetti – si svolgerà in marzo, tornando quindi a una vecchia, cara abitudine. Arrivederci a presto.

Enzo Boddi