Bergamo Jazz 2019, seconda parte

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Bergamo Jazz
Il quartetto di David Murray, foto Luciano Rossetti-Phocus Agency

Bergamo, varie sedi, 23 marzo

Con eventi distribuiti come d’abitudine in vari spazi della città, la terza giornata di Bergamo Jazz ha proposto un programma denso quanto variegato, se non addirittura eterogeneo. Il concerto mattutino presso l’Accademia Carrara ha visto protagonisti Pasquale Mirra (vibrafono e piccole percussioni) e Hamid Drake (batteria e percussioni). La loro fitta interazione è stata alimentata da fini tessiture armonico-melodiche sottilmente commentate, contrastate e completate con un gioco policromo di pelli e metalli, ovviamente con massima attenzione riservata allo sviluppo e alla distribuzione delle dinamiche. Da questa dialettica emergono influenze afro-latine e afro-caraibiche, echi del Don Cherry di «Brown Rice», oltre a inevitabili rimandi a un’atavica matrice africana. Quest’ultimo aspetto trova riscontro nello stile poliritmico di Drake (nel quale si colgono elementi desunti da Ed Blackwell, Andrew Cyrille e Milford Graves) e nel suo impiego di sonagli e tamburo a cornice, nonché nelle timbriche affini a quelle di una marimba o di un balafon che Mirra ottiene applicando un tappetino sulle lamine del vibrafono. Un’ampia ricognizione tra stili e culture compiuta con rigore estetico e perfetta unità di intenti.

Pasquale Mirra e Hamid Drake, foto Luciano Rossetti-Phocus Agency

Quanto ai concerti pomeridiani, l’Oratorio di San Lupo ha ospitato il solo di Anja Lechner, musicista classica nota per i suoi sconfinamenti in ambito contemporaneo e jazzistico documentati dalla ECM. La violoncellista tedesca ha alternato brevi improvvisazioni, giocate su registri e timbri esplorati in punta di piedi, a un repertorio distribuito in un ampio spettro temporale e stilistico. Inevitabile il ricorso a Bach, figura cardine di tutta la musica moderna e a sua volta grande improvvisatore, con una citazione del noto Preludio della Suite n. 1 in Sol maggiore. Particolarmente interessante la scelta di autori contemporanei: Luciano Berio, con l’accumulo di frammenti e il crescendo sferzante di Les mots sont allés; Valentyn Sylvestrov, con gli elementi puntillistici, le timbriche rarefatte e l’aggregazione di cellule di Waltz, il pizzicato prevalente e le pause significative di Moments of Sadness and Silence. Tutt’altro che scontate anche le restanti opzioni classiche: dal barocco di Evaristo Dall’Abaco alle trascrizioni per violoncello di brani di due violisti da gamba, lo scozzese Tobias Hume e il tedesco Karl Friedrich Abel, vissuti rispettivamente nei secoli XVI e XVIII.

Anja Lechner, foto Luciano Rossetti-Phocus Agency

All’Auditorium della Libertà si è potuta apprezzare la freschezza del giovane quartetto inglese Dinosaur formato da Laura Jurd (tromba e sintetizzatore), Elliot Galvin (piano e sintetizzatore), Conor Chaplin (basso elettrico) e Corrie Dick (batteria). Dinosaur appartiene all’ala più creativa di quelle nuove tendenze del jazz inglese orientate verso un rapporto dialettico con altre aree della musica indipendente. Non senza qualche ingenuità, i quattro mettono in gioco molte idee – non sempre sviluppate al meglio, a volte incompiute – nell’ambito di lunghe esecuzioni dove risaltano il collettivo e un uso intelligente dell’elettronica. Senza scendere a compromessi con il pop più bieco, cercano semmai di trarre stimoli dal rock indipendente, pur mantenendo un approccio e un linguaggio sostanzialmente jazzistici, come dimostrano anche il fraseggio nitido e alcune intuizioni melodiche della trombettista.

Dinosaur, foto Luciano Rossetti-Phocus Agency

Il doppio set serale al Teatro Creberg ha proposto uno stridente contrasto. Meglio cominciare dalla fine per un doverosa puntualizzazione. Nell’era della globalizzazione e dell’interazione tra linguaggi è giusto presentare nell’ambito di un festival jazz espressioni ad esso contigue, rispettandone così i presupposti stessi che lo avevano generato. La presenza di Dobet Gnahoré, nota come depositaria di una tradizione trasmessale dal padre Boni, percussionista, lasciava presagire tali legami ed esiti. L’esibizione bergamasca, al di là del successo di pubblico, ha invece deluso le aspettative di chi aveva sperato in un concerto in linea con quel retroterra culturale. L’apertura commerciale praticata dalla cantante ivoriana è sfociata infatti in un pesante impianto ritmico (con decisa preponderanza di bassi) che condensa senza grazia né misura rock, funk e techno con il massiccio apporto dell’elettronica fornito da Pierre Chamot e della ritmica granitica del batterista Mike Dibo, con occasionali sortite del chitarrista Julien Pestre. Il tutto soffoca la pur bella voce della Gnahoré ed appiattisce la metrica. La Madre Africa si perde così nel mare magnum (e torbido) del mercato occidentale.

Dobet Gnahoré, foto Luciano Rossetti-Phocus Agency

Al contrario, pur alla testa di un quartetto solo apparentemente convenzionale, David Murray ha rinverdito i fasti del passato grazie a un repertorio di composizioni originali, in gran parte nuove. Rimane forte la sua personale interpretazione del legame con la tradizione afroamericana intesa in senso lato. Il suono pieno e il fraseggio riccamente articolato del tenore derivano la propria essenza da Ben Webster; i timbri più corrosivi e i saliscendi su acuti e sovracuti costituiscono un esplicito riferimento al nume tutelare Albert Ayler. Il sostrato della sua musica è impregnato di blues e, nei frangenti in cui il canto si fa più accorato, anche al gospel. Il collegamento con le esperienze in seno al World Saxophone Quartet e con quelle più vicine alle avanguardie post free si manifesta in passaggi informali e in progressioni paragonabili a una lama tagliente che scarnifica la materia. Dezron Douglas (contrabbasso) ed Eric McPherson (batteria) imbastiscono un impianto ritmico capace, massiccio e fluente al tempo stesso. Il pianista David Bryant rompe ad arte gli equilibri con interventi spigolosi, asimmetrici, frammentati, a volte simili a schegge o cellule impazzite che però aprono nuovi e imprevisti percorsi. Come dire, voltarsi indietro per poi guardare avanti.

Enzo Boddi

David Murray, foto Luciano Rossetti-Phocus Agency

[leggi anche: Bergamo Jazz, prima parte]