BARBER SHOP: INTERVISTA A FRANCO CERRI (PRIMA PARTE)

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E’ senza ombra di dubbio la storia del jazz italiano. Franco Cerri non finisce mai di stupire e con «Barber Shop» (Abeat Records) scrive un altro importante capitolo della sua vita artistica, al fianco di Dado Moroni, Riccardo Fioravanti e Stefano Bagnoli. Questa è la prima parte dell’intervista con il grande chitarrista milanese.

«Barber Shop» ci riporta, come titolo, alle radici del jazz. Era questa l’idea? In verità l’idea del titolo non è mia ma del patron dell’Abeat Mario Caccia. E l’ho trovata molto simpatica.

Come è nata l’idea di questo gruppo? Il quartetto ruota intorno a Dado Moroni, che è un grande ed è stato un po’ una mia scoperta. Ero andato a Genova per un concerto e alcune persone mi invitarono ad andare a sentire un ragazzino che, a loro dire, suonava benissimo il pianoforte. Ero un po’ scettico, perché pensavo di sentire uno di quei tanti ragazzini virtuosi, mentre  Dado – che all’epoca aveva quattordici anni – mi stupì perché era già un maestro. Allora lo feci partecipare a una mia trasmissione televisiva e a una radiofonica. Parlo di lui, innanzitutto, perché è il personaggio più importante. Poi ci sono altri due straordinari musicisti come Riccardo Fioravanti e Stefano Bagnoli, con i quali suono insieme da diversi anni ed era già nata l’idea di incidere un disco. Io mi sono trovato in mezzo e ho cercato di fare qualcosina. Ho avuto sempre un’idea di me stesso così così: non ho mai pensato di essere un musicista importante per lo strumento che suono. Non lo dico tanto per dire, ma solo perché sono un autodidatta. Le cose belle sono avvenute più tardi, come l’incontro con Gorni Kramer, che mi ha lanciato.

L’affiatamento tra voi quattro si ascolta immediatamente. Sembra essere nata una bella amicizia. Per questo il disco si apre con Beautiful FriendshipE’ stato un caso. Era un brano che suonavo da tanto tempo e che avevo arrangiato, ma nessuno lo conosceva bene, forse un po’ Dado che quando l’ha sentito è rimasto molto colpito dall’arrangiamento.

La selezione dei brani in scaletta è sua? Ho portato un po’ di brani che suono in giro e li ho fatti ascoltare agli altri, quindi loro hanno scelto. Diciamo che tutti quanti abbiamo portato qualcosa, come quando da ragazzi si faceva merenda: io ho portato la mia e così hanno fatto gli altri. Mettendole insieme ne è uscito un discreto spuntino. Penso che lo abbiano fatto per rispettare i miei ottantotto anni… Anche la registrazione è durata poco, è andata quasi sempre bene la prima. Comunque lasciavo che fossero loro a decidere: io ho fatto il nonno che riceve le carezze.

Fa bella mostra di sé un brano dedicato ad Antonio Carlos Jobim. Suono molto spesso la musica di Jobim, ma anche loro lo fanno. Diciamo che siamo stati tutti d’accordo.

Poi, un occhio di riguardo alla voce di Judy Garland con il brano di Hugh Martin The Trolley SongE’ un brano così bello, ma poco conosciuto dai più giovani. Io l’ascoltavo spesso. Ho lasciato che Dado improvvisasse, mentre io mi sono dedicato alla melodia: Dado è in uno stato di grazia assoluto.

 Se, per caso, avesse dovuto inserire un altro strumento, con quale avrebbe voluto duettare? Un fiato: un sax o una tromba.

Maestro Cerri, lei non è mai stato attratto dalle avanguardie né dalle contaminazioni. Come giudica questa evoluzione del jazz? Vengo da lontano e ho avuto la fortuna di fare questa professione nel momento più felice, quando c’erano Ellington, Armstrong e grandi compositori. Sono vissuto con Gorni Kramer, Natalino Otto, il Quartetto Cetra: erano la mia seconda famiglia. Ciò che suonava Kramer mi ha sempre abbagliato e mi sono permesso di fare anche un disco dedicato a lui, che non è ancora uscito, rispettando le melodie e cambiando solo il lato armonico, proprio per poter ringraziare Gorni di quanto lui mi ha dato. Anche con Gianpiero Boneschi abbiamo fatto tante cose e lui mi ha aiutato molto, perché io ero un autodidatta e quindi molte cose non le sapevo fare. Io non leggevo la musica. Una notte è arrivato un sogno bellissimo: ero davanti a una partitura di un brano, che non sapevo leggere ma che già suonavo. Quindi, vedendo com’era scritto, ho imparato a leggere e scrivere la musica. Poi ho preso le altre partiture di brani che conoscevo e ho visto come erano scritti. E, pian pianino, ho iniziato a scrivere arrangiamenti e così via. Quando Kramer mi vide leggere la musica, mi disse: «Lo fai apposta, hai imparato a memoria per farti vedere! Tu mi hai sempre detto che non sai leggere la musica. Allora vediamo cosa sai fare con questa». Mi diede una partitura e io la lessi. E lui: «Quasi quasi andavi meglio prima!».

Ora, con riguardo all’evoluzione, le avanguardie sono fin troppo ardite… Quando arrivò John Coltrane, già conoscevo il suo modo di suonare dai tempi in cui era al fianco di Miles Davis; allora suonava come un tenorista di quei tempi, con un forte legame con l’armonia. In seguito secondo me è calato, non l’ho più amato come prima. Purtroppo, o per fortuna, sono legato a quell’epoca: a Duke Ellington in particolare. Ecco, non dico che bisogna copiare, ma ispirarsi. Ho amato molto anche Bill Evans. Ho avuto la fortuna di suonare con grandi musicisti, anche con Django, Jim Hall, Barney Kessel, George Benson. Avevo paura di copiare, ma non era così: ne traevo ispirazione.

A Ayroldi

(prima parte)