Antonio Sanchez & Migration – JazzMi, Teatro dell’Arte, 11 novembre 2018

di Luca Conti (foto di Soukizy)

318
Antonio Sanchez (foto di Soukizy)

Non c’è nota emessa da ciascuno dei suoi compagni che Antonio Sanchez non senta la necessità di dover replicare in tempo reale con un colpo di piatto o di tamburo, infilandosi addirittura nei pochi spazi lasciati dalla densità della musica per aggiungere figurazioni ritmiche sempre più complesse. L’esito è spesso impenetrabile, quasi sempre asfissiante, tanto che – come ci ha fatto acutamente notare la nostra fotografa Soukizy – in certi momenti diventa necessario scollegare mentalmente la batteria del leader per sintonizzarsi su voce e sassofono e tentare di galleggiare altrove. Così l’inconsueto squilibrio uditivo di questo gruppo (Thana Alexa, voce; David «Chase» Baird, sax tenore ed EWI; John Escreet, tastiere; Orlando Le Fleming, contrabbasso e basso elettrico) spinge giocoforza a chiedersi se, e quanto, sia così necessario riempire fino all’orlo tutti i possibili vuoti della musica, e se la rivendicazione – evidentemente necessaria, per Sanchez – del proprio ruolo di batterista-compositore-leader debba a tutti i costi passare attraverso la saturazione quasi entropica dello spazio sonoro, identificato in una sorta di camera chiusa, ermeticamente sigillata dall’interno. Tanto che se fossimo in un romanzo poliziesco di  John Dickson Carr, maestro del delitto impossibile, mancherebbe soltanto il cadavere.

Antonio Sanchez - JazzMi 2018

In realtà il cadavere c’è, e nonostante le migliori intenzioni di Sanchez – che è visibilmente sincero nel suo agire – questo cadavere è la musica. Che fa un’enorme fatica a smuoversi dalla sua immobilità: tutti pestano sull’acceleratore ma senza inserire mai la marcia, e la musica romba perennemente in folle. Ed è un peccato, perché le idee ci sarebbero eccome, in abbondanza; solo che rimangono immobilizzate nella confezione sottovuoto ordita dal batterista. Il quale non suona «con» gli altri se non in rarissimi casi, ma non suona neanche «contro» gli altri (una scelta estetica forse estrema ma comunque interessante). No, Sanchez suona sempre e solo «sugli» altri, non gli interessa tanto dialogare quanto tradurre simultaneamente la melodia in ritmo. E l’effetto è quello di un film in cui si ascoltano contemporaneamente la versione originale e quella doppiata.

Antonio Sanchez - JazzMi 2018

Probabile che tutto questo nasca dall’incertezza identitaria di Sanchez (messicano di nascita ma oggi anche cittadino statunitense) e dal suo disprezzo, espressamente manifestato a voce tra un brano e l’altro, per la politica repressiva dell’amministrazione Trump. Se è così – e questo, in fin dei conti, è assai realistico, oltre che condivisibile – non ci sentiamo di mostrarci troppo negativi verso una musica che, per paradosso, si trova a disagio dentro i suoi stessi abiti, sempre sul punto di lacerarsi come la camicia di Lou Ferrigno quando si trasforma nell’Incredibile Hulk, e che pone comunque all’ascoltatore un mucchio di domande senza pretendere di avere la risposta. E oggigiorno, quando ormai tutti sono esperti di tutto, avere più dubbi che certezze fa sempre bene al cuore e all’intelletto.

Luca Conti (foto di Soukizy)