Il poliedrico cantante e bluesman bolognese Andrea Mingardi parla della sua fortunata carriera, del suo ultimo album e di Bologna che lo ha premiato come jazzman.
Iniziò sessant’anni fa creando il primo gruppo italiano di rock’n’roll! E dopo una breve stagione jazzistica intraprese il ruolo di messaggero del divertimento e della gioia di vivere con i ritmi ballabili riscuotendo successi incredibili di pubblico in tutte le grandi balere italiane. Una storia musicale che non è ancora finita, e nonostante le quasi ottanta primavere alle spalle. Infatti, recentemente il soul-bluesman bolognese ha ingranato una nuova marcia con il progetto «E Allora Jazz…» cantando i migliori successi di Frank Sinatra, Nat King Cole, Ella Fitzgerald e Tony Bennet. E contemporaneamente e sorprendentemente la comunità jazzistica bolognese gli ha conferito il Premio Strada del Jazz 2019. Stiamo parlando di Andrea Mingardi, cantante, compositore, bandleader, pittore, scrittore, ex-calciatore e membro della Nazionale cantanti.
Mingardi non è solo un grande showman, ma è anche un uomo divertente, goliardico al punto giusto, un umorista dalla battuta facile e impareggiabile nel bolognesizzare testi di canzoni pop, rock, funky e blues con la voce roca e nera tipica del Delta del Mississippi, ma lui è un petroniano doc. Come cantautore vanta collaborazioni con Mina, Adriano Celentano, Lucio Dalla, Ornella Vanoni, Josè Feliciano e ha girato il mondo con i Blues Brothers.
A metà degli anni Sessanta come cantante e leader di un’orchestra da ballo si impone come una delle principali attrazioni delle balere italiane con un patchwork di sonorità e tendenze musicali diverse, quelle in cui ciascuno ascoltatore o spettatore (e spesso eravamo in tantissimi, anche tremila persone!) trovava un po’ della musica che preferiva ma al di fuori di quel sentimentalismo e melodramma che aveva plasmato le generazioni precedenti. Un mix con tutte le canzoni e le musiche moderne che conquistarono il mondo intero dagli anni Cinquanta in poi aggiungendovi anche brani di sua composizione. Infatti sono pochissimi i grandi successi internazionali che Andrea Mingardi non ha cantato nel corso della sua strepitosa carriera. Ha interpretato tutti: da Elvis Presley ai Beatles, da Chuck Berry a Joe Cocker, da Little Richard ai Rolling Stones, dagli Animals a Wilson Pickett, dai Pink Floyd a Otis Redding, Beach Boys, Led Zeppelin, Deep Purple, James Brown, Chicago, Blood Sweat & Tears, Jethro Tull, Jimi Hendrix, Creedence Clearwater Revival, Frank Zappa, Police e altri. Il suo primo 45 giri risale al 1962, mentre il cd più recente, «Ho visto cose che…», è uscito nel 2018 (Incipit Records, distr. Egea Music).
Se per il grande pubblico è stato ed è il più celebre intrattenitore emiliano romagnolo dei dancing, per tanti orchestrali degli anni Settanta Andrea era un punto di riferimento, grazie anche ai validissimi musicisti delle sue band.
Se il grande pubblico sa che il cantautore bolognese ha partecipato più volte al festival di Sanremo e vanta collaborazioni con grandi artisti italiani come Lucio Dalla, Gianni Morandi, Stadio e un duetto con Mina, pochi invece sanno che Andrea iniziò come batterista-cantante di rock ‘roll, poi di jazz, la musica che ha ascoltato e studiato con passione sconfinata fin da bambino e oggi afferma di essere «L’unico cantante italiano in circolazione che conosce tutti gli standard della jazz song americana, ma anche le pagine immortali della bossa nova e del samba jazz. Perché è vero che ho un’anima soul e un cuore blues, ma se vuoi – continua Andrea – ti ubriaco anche con João Gilberto, Tom Jobim, Chico Buarque, Sergio Mendes, Corcovado, Desafinado, The Girl From Ipanema, Chega de Saudade, Tristeza. Aquarela do Brasil eccetera. Li conosco tutti e Giancarlo Gualdi, pianista e fratello di Henghel, lo può testimoniare». In attesa di un’eventuale sana ubriacatura carioca siamo andati alla scoperta del lungo filo rosso che ha riportato Mingardi al Great American Songbook. Ecco il botta e risposta, abbastanza movimentato per la verità, poiché il nostro versatile interlocutore spazia in modo trasversale tra stili musicali, cita con ironia aneddoti che hanno segnato il suo cammino e si rischia di perdere quel filo rosso che unisce varie fasi e lunghi anni di attività.
Andrea,
chi, per ragioni anagrafiche o di gusti musicali, non ha seguito fin dagli
inizi gli sviluppi della tua maratona artistica, oggi alla luce dei recenti
progetti potrebbe domandarti cosa ti è successo. E invece io che da lontano ti
ho tenuto d’occhio utilizzo il tuo “idioma” per chiederti di togliermi «il dubito»:
non hai mai avuto l’impressione o il dubbio di aver sbagliato strada? Hai ottenuto esattamente quello che
immaginavi in gioventù?
Prima di tutto sono contento che tu
abbia hai ascoltato Anima Soul (dal
mio ultimo disco «Ho visto cose che…»,
Incipit Records, 2018): in una battuta veloce ci tengo a dire che in qualche
modo lo spirito jazz è sempre passato vicino alle mie musiche e alla mia
maniera di suonare ma…
Ma…., e scusami se ti interrompo, nel disco citato a mio avviso il jazz fa capolino soltanto con il soprano di Stefano Di Battista in Riaprono i locali , mentre molti degli altri brani sono elaborati in chiave soul, blues, funk e rock, ossia quegli stili che hanno contraddistinto grandissima parte della tua lunga carriera. Detto questo, jazz o no, é un disco di musica trascinante, contagiosa, divertente e con un’enorme carica ritmica. E allo stesso tempo alcuni testi invitano a riflettere sulla vita odierna, sul caos politico-sociale. Insomma, una sorta di messaggio-sveglia ai giovani, contro l’individualismo eccetera, è giusto?
Se la metti così va molto bene, però vorrei partire da più lontano per illustrare meglio la mia storia. Essendo un figlio del dopoguerra (sono nato nel 1940) l’unica possibilità di allora per andare oltre i cantanti melodici italiani – cioè quelli accompagnati dalle orchestre di Angelini, Barzizza, Semprini eccetera – era quella di ascoltare la musica che arrivava dagli Stati Uniti. Si trattava di una ventata di aria fresca, dopo un ventennio di autarchia dove non si poteva cantare roba americana, e di questa censura ne sapevano qualcosa Ernesto Bonino, Alberto Rabagliati e Natalino Otto ai quali si impediva di cantare in inglese, senza parlare poi delle ridicole traduzioni in italiano di alcune canzoni come Tristezza di San Luigi (St.Louis Blues), Il ruggito della tigre (Tiger Rag), hai capito come andavano le cose? A metà degli anni Cinquanta per noi appassionati si presentò poi la possibilità di scoprire il rock’n’roll, musica vivace, trasgressiva che sconvolse poi tutte le nuove generazioni. Ma ancor prima di questa ondata musicale, e grazie alla bella collezione di dischi d’oltreoceano di mio zio, io mi ero già innamorato del jazz, tuttavia ero onnivoro e attento anche alle altre novità.
Come definiresti il jazz?
Intanto che non è musica e basta, perché il jazz è voglia di raccontare, di coinvolgere, è il frutto di incontri, è musica che interpreta il passato, il presente e il futuro, è dialogo tra il gruppo e il solista, è improvvisazione. Ma prima ancora direi che il jazz è un modo di essere, la cui animaè azionata dallo swing e se non ce l’hai…
Quando hai capito che il jazz era la tua musica?
Io ho cominciato a capire qualcosina di quel sound che mi emozionava così tanto nel primo dopoguerra con i 78 giri di mio zio, dischi che mi affascinavano e mi hanno illuminato la mente. Quello credo che sia stato l’imprinting in quanto nei programmi della radio era difficile sentire le orchestre di Harry James, Benny Goodman e Frank Sinatra. Così tutte le canzoni di quei grandi artisti le ho assimilate e imparate ascoltando quei dischi. E uno che mi colpì fu un lavoro di un jazzman importante come Mel Tormé.
Si
vede che eri predestinato, ed è toccato a Tormé, che per l’appunto era cantante
e batterista, a stimolarti per scegliere quei percorsi. Infatti per quanto mi è
dato sapere ti sei avvicinato alla musica proprio sui tamburi, è giusto?
Sì! Ed è nato così: mio padre accompagnava con coltello e forchetta le canzoni che
uscivano dalla radio e quindi per imitazione da bambino cominciai a ritmare su
tavola, sedie e panche di legno imparando presto la differenza tra il battere e
il levare.
Ti ricordi la marca della tua prima batteria e il primo maestro che ti ha dato le dritte per impugnare correttamente le bacchette e a scoprire i segreti dello strumento?
Ho iniziato quando avevo dodici o tredici
anni con la mia prima batteria che era
una Super Alberti. Per quanto riguarda paradiddles, rudimenti fondamentali
eccetera che si conoscevano in quel periodo ho imparato tutto da solo, da
autodidatta.
Con
quale gruppo è avvenuto il tuo esordio sul palcoscenico?
Si chiamava Golden Rock Boys e siamo
stati il primo gruppo italiano in assoluto di rock’n’roll, insomma degli
antesignani nel Belpaese di questo genere che rivoluzionò la musica moderna.
Eravamo alla fine degli anni Cinquanta quando iniziai la mia carriera musicale
come cantante-batterista interpretando Tutti
i frutti , Be Bop A Lula, Rock and Roll Music, Johnny B. Goode, Lucille,
Love Me Tender eccetera. E proprio in
quel periodo, durante una serata dalle parti di Modena, mi presentarono una
ragazza che cantava con il nome di Baby Gate: era Mina, con la quale ci
scambiammo il numero di telefono e da quel momento rimanemmo in contatto, ci si
sentiva spesso e alla fine mi chiese di collaborare ad
alcuni suoi progetti.
Continua il racconto dei Golden Rock Boys.
Cantavamo i successi dei protagonisti americani di quel periodo: Gene Vincent, Elvis Presley, Little Richard e Chuck Berry, artista quest’ultimo che adorava il blues e influenzò nel tempo Beatles, Bob Dylan, Rolling Stones e tantissimi altri. Tutto questo andò avanti fino all’invasione dei Beatles, Rolling Stones, Animals eccetera. Mentre suonavo rock’n’roll, assieme a un mio compagno di scuola, di nome Zanarini, sassofonista tenore, cercavamo però di tirare giù dei pezzi di jazz, in particolare «Paris Concert» del 1954 del quartetto di Gerry Mulligan, un musicista che ci aveva fulminati tutti. Ero ancora acerbo con la batteria e pensa che per ottenere un certo fruscio, come fosse un rullante, suonavo con le spazzole su un giornale appoggiato su una sedia. E addirittura ci registravamo le prove con un Geloso! Insomma ero ancora abbastanza ignorante di jazz ma avevo una grande volontà di fare, quella volontà che poi mi permise di cantare e suonare con la Rheno Jazz Gang agli inizi del Sessanta, credo 1961, e di debuttare poi discograficamente con il mio primo 45 giri: nel lato B cantavo No Girls For Me To Night mentre il lato A si chiamava Ballata di un tromba (un successo di Nini Rosso) e nella band c’erano tra gli altri Pupi Avati (cl.), Checcho Coniglio (trne), Antonio Corsello (p.) e Franco Tolomei (tr). Ancora prima di quel 45 giri avevo inciso Lentement dans la nuit/Si je pouvais, per una ragazza francese, ma niente di importante.
Mi
risulta che hai fatto parte anche nella jazz band reggiana di Vanni Catellani,
trombettista, che tra l’altro nel 1968 al festival di Sanremo fu protagonista
sul palco con Louis Armstrong: è giusto?
Giustissimo. Cantavo con l’orchestra di
Vanni Catellani, tra l’altro un trombettista fantastico, e mi faceva
interpretare tutti gli standard americani ed eravamo sempre nella prima metà
degli anni Sessanta.
E quando hai capito che era più redditizio e soddisfacente fare il cantante solista che il batterista di rock’n’roll o di jazz?
L’arrivo di quei ragazzetti britannici in giacchettine e capelli a caschetto, i Beatles, decretò la scomparsa delle star del rock’n’roll come Elvis Presley, Chuck Berry e di tutto quel mondo sonoro che ci girava attorno. A quel punto dovetti stabilire se affrontare la musica con canzoni a trecentosessanta gradi, Beatles, Rolling Stones, Animals eccetera o rimanere un nostalgico aggrappato a Elvis. Poi ascoltando suggerimenti di Catellani, Piergiorio Farina, Paolo Zavallone e di Henghel Gualdi cominciai a guardarmi intorno e sono diventato un cantante frontman.
E così sono finite nel sottoscala anche le tue aspirazioni jazzistiche?
Non proprio, ma mi sono adattato alla situazione. Tuttavia non bisogna dimenticare che per tutti gli orchestrali e per i musicisti moderni la stella polare è sempre stato il jazz, perlomeno fino a Woodstock. Pertanto come orchestrale ti salvavi se conoscevi un po’ di brani jazzistici. Poi vivere a Bologna è stata una fortuna per un appassionato di jazz poiché per vent’anni Bologna è stata una capitale del jazz. Inoltre bastava spostarsi a Reggio Emilia dove all’inizio del Sessanta arrivarono anche lì dei grandi maestri del jazz. Questo per dirti che il jazz comunque era sempre con noi e anche se suonavi altra musica non potevi allontanarti del tutto perché una volta “infettato” dal virus del jazz non te lo toglie più nessuno. Ho comunque dei ricordi bellissimi di quel periodo: mi vanto di aver mangiato all’ex Continental (la tavola calda di fronte all’Arena del Sole di Bologna) i tortelloni con Miles Davis; ho cenato diverse volte con Chet Baker; ho parlato di jazz con i componenti del Modern Jazz Quartet. E tra tanti altri che non sto a citare, ho incrociato anche Gerry Mulligan e di cui ho avuto l’onore della scopertura della stella 2019 a lui dedicata nella Strada del Jazz, cioè via Orefici di Bologna.
Gian Franco Grilli
[leggi la seconda parte dell’intervista a Andrea Mingardi]