Ai confini tra Sardegna e Jazz, seconda parte

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Alexander Hawkins e Hamid Drake, foto di Luciano Rossetti-Phocus Agency

Sant’Anna Arresi, Piazza del Nuraghe

3-5 settembre

Dopo i diversi approcci al pianismo e le differenti concezioni del rapporto tra tradizione e modernità (di cui si è trattato ampiamente nella prima parte di questo contributo), la sezione centrale di Ai confini tra Sardegna e Jazz ha affrontato alcune delle numerose espressioni che animano la scena britannica.

Già protagonista di un duo con Hamid Drake nella serata del 1 settembre, allestito all’ultimo momento per sopperire all’assenza della vocalist Sofia Jernberg, il pianista Alexander Hawkins si è cimentato in un intenso e caleidoscopico dialogo con il sassofonista contralto Jason Yarde, subentrato all’annunciata Mette Rasmussen. I due sono accomunati dalla militanza nei gruppi del batterista Louis Moholo, il che induce un’immediata associazione con l’inestimabile contributo fornito alla scena del jazz inglese dagli espatriati sudafricani: oltre allo stesso Moholo, Chris McGregor, Dudu Pukwana, Mongesi Feza, Harry Miller, tutti purtroppo scomparsi da tempo. Tuttavia, Hawkins e Yarde hanno dato vita a un set denso di molteplici riferimenti storici e stilistici. La loro interazione ha preso vita da un attacco informale, fatto di potenti progressioni pianistiche sul registro grave, penetrate dal fraseggio del contralto, aguzzo e sfaccettato ma al tempo stesso anche viscerale e abrasivo. Stilisticamente Hawkins si colloca in un ambito riconducibile a un altro inglese: il grande Keith Tippett, che ci ha recentemente lasciati. Sotto questo profilo, Hawkins è capace di creare anche capienti impianti modali, terreno fertile per aree di spiccato lirismo in cui Yarde si avventura con frasi che alternano spirali e distensioni in ampie volute. Altrove, specie nei passaggi più spigolosi e ritmicamente marcati, il sassofonista disarticola e frammenta sapientemente il fraseggio. Yarde dimostra anche di padroneggiare efficacemente la respirazione circolare e di voler ricercare frequentemente il rapporto con lo spazio spostandosi in vari punti del palco e percorrendo il perimetro del piccolo anfiteatro. La dialettica del duo si fa proficua e serrata anche su delle tracce iterative prodotte dall’uso percussivo della tastiera arricchita timbricamente da opportune preparazioni. Tra i momenti topici dell’esibizione non poteva mancare un palese richiamo al jazz sudafricano, dal potente afflato innico e dall’impronta nettamente corale, che evocava le composizioni di McGregor. Un sentito tributo a una stagione indimenticabile del jazz europeo.

Alexander Hawkins e Jason Yarde, foto di Luciano Rossetti-Phocus Agency

Yarde figurava anche nella sezione di sassofoni del gruppo di Anthony Joseph, insieme ai tenori di Colin Webster e Shabaka Hutchings (quest’ultimo in veste di ospite). Nativo di Trinidad, Joseph è una singolare figura di poeta-musicista fautore di una contagiosa commistione di generi di matrice afroamericana su cui adatta in maniera dinamica ed espressiva la metrica dei propri versi, densi di connotati sociali e politici. La scansione e l’articolazione richiamano in qualche misura il poetry reading di Amiri Baraka, piuttosto che ricollegarsi a stili contemporanei come il rap. In linea generale, i contenuti musicali non si distaccano da una tendenza all’ibridazione insita da decenni nella scena musicale inglese e recentemente riaffermatasi – con esiti talvolta discutibili – nell’ambito della cosiddetta new wave del jazz britannico. Alimentato dalla pulsante ritmica formata da Remy Thibaud (chitarra), Andrew John (basso elettrico) e Rod Youngs (batteria), il torrenziale groove è impregnato di elementi soul e funk, con evidenti riferimenti a James Brown, ed afrocaraibici. Compatta e precisa, la sezione sassofoni inietta corpose dosi jazzistiche anche grazie ad alcuni efficaci assolo di Yarde e a un intervento di Webster: lancinante, belluino, memore del free inglese. Anche qui non mancano riferimenti – ora fugaci, ora palesi – al lascito dei grandi sudafricani, dai quali la scena inglese è stata segnata indelebilmente.

Il gruppo di Anthony Joseph, foto di Luciano Rossetti-Phocus Agency

Acclamatissimo da un pubblico numeroso ed estasiato, il trio The Comet Is Coming rappresenta un singolare fenomeno di massa, riflesso dei tempi, e anche un’abile operazione commerciale. Viene descritto nei modi più disparati e fantasiosi: tra le punte di diamante della nuova ondata del jazz britannico; anticipatore del jazz del futuro; addirittura (udite, udite!) erede della poetica visionaria di Sun Ra. Nulla di tutto questo. Se è vero, com’è vero, che storicamente il jazz è sempre stato aperto per sua stessa natura a incorporare e assorbire altri elementi, è altrettanto incontestabile il fatto che nella musica di questo gruppo di jazz non ce n’è neppure l’ombra. Né bastano alcune occasionali digressioni del sassofonista Shabaka Hutchings a giustificare questo assunto. Affermare che questo gruppo intercetta gli umori dei nostri tempi non fa altro che creare comodi alibi. Scandita dai sintetizzatori di Dan Leavers e sottolineata dalla batteria di Max Hallett (che picchia come un fabbro), la pulsazione ritmica è alimentata da una forte impronta techno. Un monolite sonoro che rappresenta un terreno invitante per Hutchings, prodigo di mitragliate di fraseggi parossistici. In questo contesto il pur bravo sassofonista risulta solo un pallido epigono degli storici tenoristi del rhythm’n’blues. The Comet Is Coming propone solo una concezione agonistica, muscolare del far musica, adatta a club e discoteche, senz’altro appetibile per un pubblico giovanile.

The Comet Is Coming, foto di Luciano Rossetti-Phocus Agency

Dovendo tirare un bilancio, si può affermare che la XXXV edizione di Ai confini tra Sardegna e Jazz ha resistito in modo dignitoso all’impatto delle conseguenze causate dal Covid. Seppur soggetto a vari cambiamenti, il programma ha cercato di proporre varie tendenze votate alla ricerca e all’incontro tra culture diverse. In questo senso, vi hanno trovato piena cittadinanza gli incontri tra Hamid Drake, Alfio Antico e Alberto Balia all’insegna delle musiche popolari; il già citato duo Drake-Hawkins; il progetto elettronico Pinocchio Parade di Giancarlo Schiaffini; l’esplorazione tra radici blues e avanguardie afroamericane del quartetto Roots Magic. Purtroppo, si sono registrate alcune pesanti defezioni. Oltre alle già citate Jernberg e Rasmussen, quella di Mats Gustafsson che avrebbe dovuto esibirsi prima in solo, poi in duo con Christof Kurzmann e infine nel quartetto MTMT, con la Rasmussen, Ingebrigt Håker Flaten e Will Guthrie. Ovviamente tutti assenti. Gli effetti – pratici, economici, ma anche psicologici – del Covid hanno colpito duro.

 

Enzo Boddi