Ai confini tra Sardegna e Jazz, prima parte

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Il trio New Things di Franco D'Andrea, foto di Luciano Rossetti-Phocus Agency

Sant’Anna Arresi, Piazza del Nuraghe

3-5 settembre

Collocata com’è ormai consuetudine nella prima settimana di settembre, la XXXV edizione di Ai confini tra Sardegna e Jazz – organizzata dall’associazione culturale Punta Giara – ha proposto un programma più che dignitoso, a dispetto delle difficoltà logistiche e delle restrizioni provocate dal Covid. Nella sezione centrale del programma, tra il 3 e il 5 settembre, si sono potute individuare due linee tematiche ben chiare e distinte: il diverso approccio alla tradizione di tre pianisti europei (Franco D’Andrea, Jacky Terrasson e Alexander Hawkins); alcune differenti espressioni dell’attuale scena britannica, che verranno affrontate nella seconda parte di questo contributo.

Il trio di Jacky Terrasson, foto di Luciano Rossetti-Phocus Agency

Pianista dalla tecnica sopraffina, padrone tanto del retroterra afroamericano quanto del patrimonio colto europeo, Terrasson è un funambolo della tastiera, capace di esplorare a fondo le implicazioni armoniche di standard consumati e di interpolarne i risvolti melodici con materiali eterogenei. Una caratteristica che esprime al meglio nella dimensione del piano solo. Nell’esibizione in trio offerta a Sant’Anna Terrasson ha confermato solo in parte queste doti, disperdendosi spesso in ornamentazioni superflue e gigioneggiando troppo con atteggiamenti istrionici ed affettati. In una Caravan frizzante – in cui si alternava tra piano e Fender Rhodes – ha puntato sul gusto ammiccante per la citazione arrivando ad accennare un frammento di Don’t Stop ‘Til You Get Enough di Michael Jackson. Un canovaccio funk alla Herbie Hancock è sfociato in un richiamo a Love For Sale. E ancora, una Over The Rainbow distillata cellula per cellula è confluita all’improvviso in Come Together dei Beatles. Forse la cosa migliore – e certamente la più coerente – del concerto si è rivelata una versione di You Don’t Know What Love Is giocata in punta di piedi su spazi dilatati in un’efficace interazione con la valida ritmica formata da Sylvain Romano (contrabbasso) e Lukmil Pérez (batteria). In definitiva, però, ha finito per prevalere l’aspetto dell’intrattenimento: di alto livello tecnico, ma alla lunga piuttosto stucchevole.

New Things di Franco D’Andrea, foto di Luciano Rossetti-Phocus Agency

Ben altra musica è stata proposta dal trio New Things di Franco D’Andrea, sempre proteso alla ricerca di nuove vie. Dopo un anno di messa a punto e la pubblicazione del doppio Cd eponimo, D’Andrea ha approntato un sistema che gli permette di creare strutture in continuo divenire, semplicemente attenendosi a delle tracce o linee guida. L’interazione, sotto forma di autentico interplay, con Mirko Cisilino (tromba) ed Enrico Terragnoli (chitarra ed elettronica) è costante, efficace e proficua. Prima di tutto, prende spesso vita da semplici e scarne cellule melodiche che via via si dilatano e sovrappongono. Quindi, produce scambi serrati di chiamata e risposta proiettando lo schema tradizionale della call and response in un contesto di estrema attualità. Inoltre, sviluppa feconde linee contrappuntistiche. Ne risulta un autentico collettivo, espressione corale dell’unità di intenti e di uno scrupoloso ascolto reciproco. Un flusso continuo di idee che si rincorrono e intrecciano senza mai interferire o confliggere. Il pianista ama dettare segnali in codice e indicare il percorso con semplici frammenti o nuclei melodici, oppure con figure ritmiche. Terragnoli svolge un ruolo essenziale di referente ritmico, integrando al tempo stesso i contenuti timbrici con misurate distorsioni e un uso discreto dell’elettronica. Cisilino si dimostra un interlocutore ideale in virtù di una versatilità che gli consente di affrontare linguaggi differenti e individuare le soluzioni più appropriate. Il fraseggio incisivo, asciutto lo colloca su un’ipotetica linea stilistica che congiunge Don Cherry, Lester Bowie e Bill Dixon. L’uso magistrale delle sordine mute e plunger evoca il jazz di New Orleans e i trombettisti di Ellington, Bubber Miley in primis. Come già documentato dal disco, da questo meticoloso lavoro di tessitura del trio emergono africanismi latenti, figure ritmiche riconducibili a Lennie Tristano e ogni tanto richiami alla tradizione e citazioni (perfino i temi, debitamente trasfigurati, di Tiger Rag e Livery Stable Blues). Non si tratta però di azioni estemporanee; piuttosto, di approdi del tutto congrui e naturali, volti a dimostrare il saldo rapporto di continuità tra tradizione e avanguardie.

Franco D’Andrea durante le prove, foto di Luciano Rossetti-Phocus Agency

Giustamente a D’Andrea è stato riservato spazio anche per un acclamato solo di pianoforte. Ascoltarlo in questo cimento rappresenta sempre un’occasione di approfondimento per tutti coloro che lo seguono da anni. Il pianista si confronta con lo strumento con un approccio mai prevedibile, mai scontato. Dunque, per i suoi ascoltatori abituali fruire di questa esperienza è paragonabile all’ennesimo incontro con una bella donna, ma con lo stesso entusiasmo della prima volta. Il che iequivale anche a ripercorrere alcune tappe fondamentali nell’evoluzione del jazz. D’Andrea attinge a queste fonti con fugaci riferimenti e argute citazioni, gettando ponti con l’attualità e – perché no? – il futuro del linguaggio jazzistico in virtù di una sete inestinguibile di sperimentazione. Infatti è capace di penetrare nell’essenza recondita dei materiali trattati, interpolandoli con acume in una narrazione coerente che gli consente di aprire nuovi percorsi e proporre così all’ascoltatore chiavi di lettura sempre diverse. Le linee oblique, sghembe traggono linfa vitale dall’eredità di Thelonious Monk e vengono spesso contrastate (ed efficacemente sostenute) da potenti figurazioni sul registro grave: lascito di Lennie Tristano, ma anche frutto dell’interesse del pianista per i poliritmi africani. Molte delle sue costruzioni risultano dall’accumulo, la stratificazione e lo sviluppo di cellule motiviche. Quanto al rapporto (mai pedissequo) con la tradizione, nell’approccio alla tastiera inserisce richiami sapientemente trasfigurati allo stride e al ragtime. Quindi, dal flusso costante di spunti e intuizioni emergono frammenti di un Saint Louis Blues abilmente camuffato o il tema di una Let’s Fall In Love di Cole Porter messa a nudo e sfrondata di ogni autocompiacimento. La sensualità della scrittura di Ellington – un altro dei grandi amori di D’Andrea – trapela da un trattamento asciutto (e non privo di spigoli) di Half The Fun. Infine, Naima è una dichiarazione d’amore – carnale e spirituale al tempo stesso – per il noto tema di John Coltrane. I nuclei melodici sono enunciati con certosina meticolosità, contrapposti a contrafforti ritmici pulsanti, pregni di africanismi sottintesi: un lungo e intenso abbraccio.

 

(continua)

 

Enzo Boddi