Dromos festival, nel segno di Gonzalo Rubalcaba e Michael League

Dromos festival, oltre due settimane di concerti, da fine luglio a Ferragosto, nel territorio dell'Oristanese, tra la città capoluogo e undici centri. Dal live in esclusiva europea del trio del pianista Gonzalo Rubalcaba, alla fusion dei Bokante fondati da Michael League del gruppo newyorchese degli Snarky Puppy. Tra gli altri Horacio "El Negro" Hernandez, Fatoumata Diawara, Dee Dee Bridgewater e Murgia, Cinelu e Le

338
Gonzalo Rubalcaba in concerto a Dromos Festival (foto Agostino Mela)

Al Dromos festival, oltre due settimane di eventi nell’oristanese, dalla fine di luglio a Ferragosto, tra mare, monti e colline, c’è già la musica del futuro. Funkettoni, blues dell’anima. E molto jazz di qualità, suonato davanti a un pubblico numeroso ed eterogeneo e, in buona percentuale, giovanile.

Il segreto del successo della rassegna, che sta raccogliendo il frutto di un lavoro di venti edizioni, è la commistione di audience locale e di turisti in un angolo di Sardegna con spiagge e natura poco contaminati. Una programmazione che si ramifica nel territorio, dalla città capoluogo di Oristano agli undici paesi ospiti. Borghi di tradizioni agro pastorali che hanno sviluppato interesse per la musica di qualità. Persino la più sperimentale. Il cartellone di Dromos festival è ricco e vario, senza dogane e passaporti, costruito da migranti d’arte di diversi continenti. Che vuole una rivoluzione tranquilla dove ci sia posto per il mainstream come per i suoni del mondo. Quelli che raccontano terre in trasformazione tumultuosa come l’Africa quanto chi, nelle moderne metropoli ricerca nuovi orizzonti. In fondo questo era anche il senso tematico di una edizione dedicata al 1968 e di conseguenza allo spirito rivoluzionario (raccontato non solo con la musica ma anche con una mostra di opere d’arte contemporanea alla galleria Contini, e un ciclo di proiezioni ad hoc, come nelle diverse scenografie dei palchi, opera di Mattia Enna), umano soprattutto, indispensabile per stabilire dialogo e confronti tra gli abitanti del nostro pianeta.

Non si sa fino a quanto sia stato voluto, ma è un fatto che ad aprire il programma, nel delizioso villaggio di Fordongianus, sia stata la formazione dei Bokantè, diretta da Michael League: cioè proprio la plastica rappresentazione di quell’incontro evocato da Dromos festival tra le diverse tendenze della musica contemporanea. Per giunta l’atmosfera che ha accolto il concerto della formazione capitanata da uno dei fondatori degli Snarky Puppy, era poi quanto di più cool potesse attendersi. Quasi una citazione 

I Bokantè sul palco di Dromos festival a Fordongianus (foto Agostino Mela)

hippy, per via della collocazione del palco al centro di uno spazio verde ad anfiteatro, ricolmo di spettatori a due passi dalle antiche terme romane: un delizioso spazio da dejeuner sur l’herbe, con piscinette naturali in cui provare l’ebbrezza di immergersi nei punti in cui l’acqua sgorgante a sessanta gradi di temperatura dal sottosuolo si mescola con quella fredda e tumultuosa del fiume Tirso che lì ha una sua rapida. Natura e musica in simbiosi, quasi un manifesto per questo innovatore e ardito progetto musicale, già carico di consensi, nonostante abbia solo un anno di vita, e alle spalle già un disco godibile come “Strange Circles” _ al quale seguirà tra pochi giorni un altro album ,“What Head”, voluto dalla Real World _ e che ha costituito la scaletta dell’intero live.

Michael League, il leader dei Bokantè (foto Agostino Mela)

Tutto o quasi farina del sacco dell’instancabile bassista Michael League (qui alla chitarra baritono) fondatore della ecclettica band di jazz fusion newyorchese degli Snarky Puppy: un sound accattivante che spazia dalle radici del blues alle suggestioni sonore africane, con una bella ossatura groove e una efficace macchina da guerra sonora. A cominciare dai due chitarristi Snarky Puppy, Bob Lanzetti e Chris Mc Queen, alla pedal steel guitar c’è invece il virtuoso Roosevelt Collier. A chiudere la sezione ritmica con il grande percussionista James Haddad (Sting e soprattutto Paul Simon) e i due colleghi Andrè Ferrari (Vasen) e Keita Ogawa (Banda Magda e Yo-Yo Ma). Chiude il cerchio con la sua incantevole voce la giovane cantante (e autrice dei testi) creola Malika Tirolien, originaria di Guadalupe, bella e affascinante con spiccato senso del ritmo. Otto musicisti di quattro diversi continenti per Bokantè che in creolo, la lingua usata per tutti i brani composti da League, vuol dire “scambio”. Cioè musica condivisa, ciascuno secondo il proprio bagaglio e feeling. Ne viene fuori una scena coloratissima connotata da una interessante coesione artistica. Sembra incredibile come otto artisti di lingue ed esperienze differenti abbiano trovato un sentire comune attraverso la musica.

Roosevelt Collier, virtuoso di pedal steel guitar in azione (fotografia di Agostino Mela)

I brani parlano di crisi ambientale, migranti e rifugiati e della crescente indifferenza verso chi soffre fame e povertà. Parla anche dell’importanza di amarsi l’uno con l’altro, proprio come recita il brano che ha aperto il set, “Jou Kè Ouvé”, un muro chitarristico sostenuto da un drumming cadenzato di marcia. La voce di Tirolien gira attorno sinuosa. Ha un cuore funky e profuma di poliritmia il successivo “Nou Tout Sé Yonn”, dalla avvolgente melodia profumata di Africa. Stessa passione vocale in “O La” dove Roosevelt Collier dà saggio della sua bravura alla pedal steel guitar. Echeggia ancora il deserto africano e riprende il blues tradizionale “Zyé Ouvè, Zyé Femè”, un brano in equilibrio instabile, dove primeggia League con la sua baritono. Su questo mood continua il resto del set conquistando il pubblico del Dromos festival con ipnotici ritmi, le improvvisazioni pirotecniche dei percussionisti (su tutti Haddad) e la voce sognante di Tirolien. Da “An Ni Chans” a “Apathie Mortelle” e “Vayan”, una fusion inedita che ha molto filo da tessere ancora.

Jamey Haddad durante un suo scatenato solo a Dromos festival (foto Agostino Mela)

Evocata fortemente dai Bokantè l’Africa si è presentata con prepotenza (sold out con oltre 1200 persone), qualche giorno dopo al Dromos festival nell’incantevole scenario dell’antica città di Tharros, l’anfiteatro davanti al mare e un cielo stellato per il concerto della nuova regina del canto africano Fatoumata Diawara. Bellezza statuaria ed energia a livelli alti in un set di forte impatto col pubblico. Nata in Costa d’Avorio, Fatoumata (alle spalle una esperienza d’attrice con i francesi Royal De Luxe) canta in wassoulou (dialetto di una regione sul confine tra Mali e Guinea) diversi motivi tradizionali, reinterpretati secondo la lezione del pop rock, in un costante scambio tra passato e presente, tradizione e modernità.

Un momento del concerto della cantante Fatoumata Diawara (foto Manuela Vacca)

Afrobeat ma anche ascendenze jazz con una spiccata passione swing (forse cresciuta con l’incontro nel 2014 con il pianista cubano Roberto Fonseca con cui ama spesso esibirsi) soprattutto in “Bakoonoba” dal ritmo in crescendo. Ma anche le altre “Sowa” come il blues “Kokoro”, il funk “Negue Negue”, o la travolgente “Ou Y’An Ye” (tutte e tre dell’ultimo album appena pubblicato “Fenfo”) che fanno scatenare al ballo. Ricorda in parte la geniale Rokia Traorè e a questa artista Fatoumata sembra guardare come riferimento e ispirazione. Anche se ormai occorre dire che Diawara, tra l’altro impegnata sul fronte dei diritti delle donne nella sua terra, ormai balla da sola, viste e considerate le ultime esperienze e incontri: da Herbie Hancock (nell’album “The Imagine Project) al supergruppo africano fondato con Toumani Diabatè, forse il più grande virtuoso africano di kora, e le collaborazioni con Damon Albarn.

Dee Dee Bridgewater durante il concerto tenutosi a Oristano per Dromos festival (foto Agostino Mela)

Con Fatou ha in comune una terra di musica come il Mali, un’altra illustre lady del canto, Dee Dee Bridgewater (Fatoumata è stata infatti backing vocals nell’album “Red Earth: a Malian Journey” del 2007), già altre volte ospite del festival, e che qualche giorno dopo si è esibita in un lungo live nel cortile della cattedrale di Oristano, presentando il suo ultimo album “Memphys… Yes, I’m Ready”, omaggio alle roots soul della sua città natale. Ma nei giorni precedenti altri eventi hanno incontrato il favore del pubblico: dalla pianista Marialy Pacheco al cantautore Vinicio Capossela e le canzoni della “Cupa”, più una serie di inediti scritti proprio per il Carnevale equestre oristanese, la “Sartiglia”. Ancora dall’Africa, l’effervescente Bombino, a ruota il gruppo del cubano Pedrito Martinez. E, andando verso la fine, il bel concerto del trio formato da Gavino Murgia, Mino Cinelu, Nguyen Le e la rassegna blues di Nureci, durata tre giorni e chiusa da Seun Kuti con la sua trascinante orchestra Egypt 80.

Horacio “El Negro” Hernandez durante il live di Ula Tirso (foto Agostino Mela)

Ed è un travolgente alternarsi di danzon, rumba e latin jazz a riscaldare il cuore dei seicento accorsi invece il 9 agosto a Ulatirso per il gradito ritorno di un grande della batteria, Horacio “El Negro” Hernandez, alla guida della fedele formazione Italuba, nata in Italia, paese amatissimo da Horacio. Qui il drummer ha raccolto anni fa attorno a sé un pugno di amici e formidabili musicisti. Iniziando dal prestante trombettista Amik Guerra capace di stupire per la profondità dei suoi soli e il controllo totale dello strumento: un perfetto connubbio tra sapienza tecnica e strepitoso swing che cela una devota passione del caraibico per la lezione di Freddie Hubbard. Stesso discorso vale per il raffinato pianista Ivan Bidon, abilissimo nel costruire cornici melodiche e accendere vertiginose fiammate latin, sostenute in modo metronomico dal contrabbassista Daniel Martinez. E poi, naturalmente c’è Horacio “El Negro”, un treno in corsa, inesauribile energia, sapiente virtuoso del drumming e finissima arte nel colore.

Il gruppo Italuba saluta il pubblico al termine dell’esibizione (foto Agostino Mela)

Quattro cubani che amano far emergere il profumo della loro terra e allo stesso tempo swingare regalando un set compatto di quasi due ore di musica strepitosa. Iniziata con la citazione, pari pari, della scaletta del secondo album Italuba (“Last Minute”, “Te Prima”, “Danzon for you”, l’impareggiabile e malinconica“Afternoon at the boulevard” e “Mr”) e proseguita con “Chan Chan”, “Imagine”, “Vision en la niebla” e il divertente tormentone de “La maleta”.

Il trio di Gonzalo Rubalcaba sul palcoscenico di Neoneli per Dromos festival (foto di Agostino Mela)

Jazz che sa scaldare i cuori, musica di formidabile potenza evocativa quella offerta dal trio di uno dei più importanti pianisti del momento, il cubano Gonzalo Rubalcaba che nel raccolto scenario della piazza Barigadu a Neoneli ha dato vita la sera successiva al set più emozionante di tutto il festival. Un concerto stellare, unica data in Europa, in collaborazione con Lacanias. Un Rubalcaba forse meno caraibico del solito e più “americano” con partner sensibili come l’immancabile Matt Brewer al contrabbasso e, a ricoprire il ruolo solitamente assegnato a Jeff Ballard, il giovanissimo Kyle Swan alla batteria. Quest’ultimo va assolutamente segnalato, non solo per la capacità di costruire lucidi interplay con Gonzalo, ma anche per altre doti: tecnica e maestrìa nel drumming e matura raffinatezza nell’esecuzione.

Un primo piano del giovane batterista Kyle Swan, componente del trio di Rubalcaba (foto Agostino Mela)

Swan dimostra di conoscere la lezione di maestri come Elvin Jones e sa farne tesoro. Con Rubalcaba e Brewer si confronta sempre alla pari e senza complessi. L’impressione è che di Kyle Swan se ne sentirà parlare presto. Merito anche e soprattutto di star come il pianista cubano che l’ha voluto in questo tour. Un tour che si segnala come un omaggio ai grandi del jazz contemporaneo made in Usa. Principalmente Bill Evans e Charlie Haden.  Del primo Rubalcaba ha sempre nutrito una passione sconfinata mentre con il secondo c’è innanzitutto una significativa storia di amicizia e gratitudine (fu Haden a fare da mentore al giovane pianista cubano nella metà degli anni 80).Proprio a richiamare simbolicamente l’America, in apertura di set, è la personale rilettura di “Hermitage” di Pat Metheny, tratto dalla prova solista in studio del chitarrista, “New Chautauqua” (1979). Un brano che evoca spazi sterminati ed è essenzialmente una poesia country. A seguire è la volta di “Sandino” di Haden che il contrabbassista incise con Gonzalo nel disco “Tokyo adagio” (registrato dal vivo al Blue Note di Tokyo nel 2005) e che nel concerto sardo è stato riproposto vestito di sontuosa eleganza, arrangiato finemente senza ricami e preziosismi virtuosistici. E di quel disco “giapponese” non poteva mancare un altro pezzo di antologia del contrabbassista americano come “My Love and I” , brano originalmente scritto da David Raksin per il cinema (il film “Apache”) scoperto per caso da Haden nel disco inciso nei primi Sessanta da Coleman Hawkins, “Today and Now” e riproposto da Haden prima nel 1993 con il Quartet West nel disco “Always say goodbye” e poi in “Sophisticated Ladies” (2010) cantato da Cassandra Wilson. Ad Haden infine Rubalcaba riserverà il posto d’onore in occasione del secondo e ultimo bis, eseguendo quello straordinario brano, oggi quasi un sacro standard, “Silence”, che Charlie Haden compose e registrò a Roma nel 1987 per l’etichetta italiana Soul Note con Chet Baker alla tromba, Enrico Pierannunzi al piano e Billy Higgins alla batteria.

Il contrabbassista Matt Brewer e il batterista Kyle Swan nel live di Neoneli (foto Agostino Mela)

Corposa anche la parte dedicata a Bill Evans, ma pur sempre intimamente intrecciata al rapporto con Haden. E’ infatti con la lettura inusuale e originale di “Blue in Green” che si apre l’omaggio al geniale compositore e pianista americano. Il brano modale scritto nel 1959 da Evans per “Kind of Blue” , forse il miglior disco di Miles Davis, venne infatti riproposto da Rubalcaba in “Blessing”, album del 1991 dove il pianista cubano è sostenuto in modo robusto e complice da Haden (con loro anche DeJohnette alla batteria). E’ incredile, anche in questo caso, la capacità di Gonzalo di trovare dal vivo nuove porte d’ingresso e di fuga in un brano così solidamente ancorato alla storia del jazz, fino a costruirne una versione colma di freschezza creativa, distante anni luce sia da quella di Davis che di Evans stesso. Di quello che è da molti ritenuto il miglior trio della storia del jazz (con Evans Scott LaFaro al contrabbasso e Paul Motian alla batteria) Rubalcaba ha ripescato una delle perle più belle dell’ultimo album di quella formazione: è “Gloria’s step”, registrato dal vivo nel 1961 al Village Vanguard di New York (Scott LaFaro, l’autore del pezzo, scomparve dieci giorni dopo in un incidente stradale). Eseguito dal vivo nel live sardo è sembrato più convincente della registrazione fatta con Lovano in “Flying colors” (album del 1997): più dinamico senza perdere anima blues. E di Bill Evans (e Lennie Tristano) si sente il richiamo nell’album “XXI Century” inciso da Rubalcaba, qualche anno fa e dal quale il pianista ha proposto a fine serata “Son XXI”, un pezzo scritto dal compositore bimodale cubano Enrique Ubieta. Una iniziale rumba che viene progressivamente destrutturata in diversi pattern percussivi. Ed è dallo stesso “XXI Century” che infine Gonzalo sceglie l’ultimo tributo a Bill Evans, “Time remembered” suonato come primo bis, e di cui il pianista cubano offre una sensazionale rilettura con un tempo rallentato. Uno swing più leggero eppure denso di intensa malinconia. Mentre Swan accarezza le spazzole facendo echeggiare i piatti, Brewer fa sgorgare dallo strumento grappoli di note cupe, bassi profondi. Rubalcaba interviene con tocco leggero pennellando un affresco fatto di luce soffusa, di commovente nostalgia.

Un altro primo piano di Gonzalo Rubalcaba durante il concerto a Dromos (foto Agostino Mela)