Kurt Elling: equilibrio tra sostanza e forma

Sarà la musica a salvare il mondo, non certo la filosofia, sostiene il cantante

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Kurt Elling - foto U. Germinale

C’è un forte contrasto tra l’amore e la spontaneità che Kurt Elling fa trasparire sul palco e l’atteggiamento compassato, fortemente studiato, che assume quando si lascia fotografare assieme ai suoi fan e decide di rilasciare delle interviste. L’uomo è un professionista di altissimo livello e tutto quello che dice o fa è frutto di uno studio in cui i suoi consulenti della comunicazione hanno avuto un ruolo importante. Provate a farvi una foto assieme a lui. Vi accorgerete delle pose che assume per compiacervi – e ovviamente per compiacere l’obiettivo – che deve aver studiato più volte davanti allo specchio. Anche sul palco. Quegli inchini, gli sguardi compiaciuti che rivolge ai musicisti che l’accompagnano, i suoi sorrisi ammiccanti che arrivano sempre al momento giusto (quella nota, o la fine di quell’assolo) ci fanno comprendere quello che oggi è diventata la musica: equilibrio osmotico tra forma e sostanza. Se poi ci soffermiamo sulla musica… Quella musica, quella che riesce a farci arrivare con la sua fantastica voce è qualcosa di assolutamente sublime e coinvolgente. Il pubblico del Gioco del jazz a Bari lo ha acclamato decretandogli una standing ovation e la richiesta di ben tre bis. Ma ce ne sarebbero stati altri, se solo Kurt l’avesse voluto e fosse stato ancora disponibile.

La sua musica fa trasparire l’attenzione che Lei dedica ai testi delle canzoni che canta. Questo in un momento storico in cui sempre più la musica viene intesa come assemblaggio di sonorità e in cui il cantante è vissuto sempre più come parte del corpo sonoro e sempre meno come solista. Se è vero, mi vuol parlare di questo suo atteggiamento?
Per me è una sfida. La maggior parte delle canzoni che canto sono scritte in inglese e spesso sono difficili da ascoltare – trattandosi di jazz – per cui quando viaggio (e spesso sono in tour in Europa o in Sud America) cerco di avere nel mio repertorio qualcosa da cantare in altre lingue. Mi capita di viaggiare molto e di entrare in rapporto con il pubblico più disparato: a me piace aver contatto con il pubblico, qualsiasi esso sia. Cerco di farlo in maniera intensa, profonda, così come ho fatto stasera qui allo Sheraton di Bari. Mi piace fare dei piccoli regali al pubblico che è venuto ad ascoltarmi, magari cantando nella sua lingua. Per me è molto importante che il pubblico si lasci coinvolgere dalla musica che propongo sul palco, è molto importante che si emozioni e che per un’ora si dimentichi del mondo: l’unico modo perché questo accada è che la mia band suoni bene e che io canti al meglio delle mie possibilità. Quello che faccio è cercare di creare una connessione tra la mente, il cuore e la voce.

In questo momento la sua è una delle più importanti voci maschili in circolazione. Quali sono le caratteristiche che oggi deve avere un cantante di jazz per essere considerato moderno?
Deve amare profondamente la tradizione di questa musica, deve aver studiato i grandi cantanti apparsi sulla scena prima di lui. Parlo di gente come Mark Murphy, ovviamente, di Jon Hendricks, Eddie Jefferson, Joe Williams, Mel Tormè, Frank Sinatra, Babs Gonzales, e questo solo per restare agli uomini. Ma non deve essere legato pedissequamente al passato. Deve vivere il suo tempo restando se stesso ma, nello stesso tempo, essere consapevole di chi ha cantato prima di lui e cercar di guardare al futuro. Per me il punto di equilibrio è raggiunto da quell’individuo, disciplinato e intelligente e che, col suo talento personale, la sua volontà e la sua capacità di credere in qualcosa, guarda al passato traendone insegnamento mentre il passato si fonde in lui e insieme guardano in avanti, verso il futuro.

Quali sono le sue influenze principali?
Tutti quelli che ho menzionato prima. Tra gli strumentisti Dexter Gordon e Lester Young, che sono quelli che ho ascoltato maggiormente. Sono letteralmente innamorato del sax tenore: è uno strumento che canta, ha lo stesso timbro della voce umana.

Kurt Elling – foto Anna Webber

Mi racconti in sintesi la sua storia…
Sono nato a Chicago. Mio padre era un musicista, suonava in chiesa e io cantavo nel coro. E’ in questo modo che mi è stato regalato il dono della musica. Crescendo ho iniziato ad ascoltare lo swing e la musica da ballo. Ai tempi dell’università ho iniziato ad ascoltare la musica più attentamente e ho scoperto Herbie Hancock, Wayne Shorter, Miles Davis. A un certo punto mi è capitato di ascoltare Mark Murphy dal vivo e sono andato fuori di testa. Lì ho capito che mi sarebbe piaciuto seguire le sue orme. Sono tornato a Chicago per studiare filosofia e teologia, ma la sera frequentavo i jazz club e i musicisti della scena locale: soprattutto quelli più anziani, gente che aveva tra i settanta e gli ottant’anni. Mi invitavano continuamente a cantare con loro ed erano entusiasti di me. Ero fortemente in sintonia con loro ed è così che è venuta fuori la mia vocazione per il jazz. Decisi quindi di lasciare l’università e di vivere la musica professionalmente lavorando con quei musicisti. Preparai un demo che fu scelto dalla Blue Note. Sono passati vent’anni, ed eccomi qui.

Lei vive a New York. È ancora quello il posto più importante in cui suonare jazz?
Tutti i posti in cui si suona jazz sono importanti, ma New York è ancora la più grossa calamita al mondo per quel che riguarda questa musica. C’è un grande desiderio, e anche una grande possibilità, di suonare dal vivo; di conseguenza c’è una competizione fortissima. Devo ammetterlo, ci sono fantastici musicisti ormai sparsi un po’ in tutto il mondo ma New York ha una scena sconfinata, non c’è paragone con nessun altro luogo. Ovviamente per quel che riguarda il jazz.

Qual è la dimensione in cui si sente maggiormente a suo agio? Quella in studio o quella dal vivo?
Sono sempre più a mio agio in studio. È una dimensione che ti insegna diverse cose. La prima di tutte è capire quanto sei realmente bravo, al di là di quel che tu ritieni o che ritiene il tuo pubblico. Quando suoni dal vivo poni grande attenzione al pubblico che reagisce e ti risponde in maniera diretta; interagisci con gli altri musicisti e loro interagiscono con te. Ma è solo un momento che poi finisce e non si ripete più. In studio hai la possibilità di ascoltare e riascoltare ogni piccola sfaccettatura di quello che hai fatto, ti accorgi per esempio se sei veramente intonato. Però non vorrei essere frainteso: io adoro il pubblico, mi piace che si emozioni e amo far parte di una serata in cui tutto questo avvenga. Mi piace essere il mezzo attraverso il quale la gente si faccia trasportare dalla musica.

Lei è anche un compositore?
Sono più un esecutore e non compongo come vorrei. Prima me ne rammaricavo ma oggi mi sono riconciliato con questa cosa. Il mondo ha bisogno di compositori ma anche di esecutori, e io ho deciso di seguire la strada che ha tracciato Jon Hendricks.

foto Riccardo Crimi

Ma quando lavora attorno ad una canzone, preferisce lavorare da solo o in team?
Dipende dalla situazione. Mi piace lavorare in team se i collaboratori sono quelli giusti per quel progetto e se possono apportare, con la loro intelligenza, qualche idea. Altrimenti scelgo di risolvere i miei problemi da solo.

Mi ha detto prima di aver studiato filosofia. Quali sono i filosofi che l’hanno colpito maggiormente?
E’ una domanda difficile. Ve ne sono diversi e molti di loro mi hanno influenzato. Mi sono iscritto a filosofia per capire non solo il loro pensiero ma anche, e soprattutto, per comprendere come tutti noi, il mondo, fosse arrivato fin qui. Farò i nomi, quindi, di Ludwich Feuerbach, di Georg Friedrich Hegel, ma subito dopo di loro ho rivolto la mia attenzione alla poesia perché parla di qualcosa che è impalpabile. Vede io penso che esistono delle cose che non si possono spiegare con la filosofia che è stata superata nel tempo dalla critica letteraria, da quella storica, dall’archeologia, dalle scienze che hanno approfondito meglio l’essenza di quello che ci circonda. Oggi noi abbiamo bisogno di musica e di poesia: credo che Walt Whitman sia stravagante e profondo nello stesso tempo, credo che un poeta e mistico come il persiano Rumi sia, a distanza di quasi un millennio, ancora una voce importante per il mondo. Ovviamente Rainer Maria Rilke continua a essere una presenza importante per me. Ma ve ne sono tanti altri che seguo. Io non faccio altro che ascoltare e cercare la bellezza che esprimono.

Quindi non è la filosofia che salverà il mondo, come qualcuno ci diceva a scuola…
Non credo che la filosofia possa salvare il mondo. Credo che possa farlo la musica. E la poesia.

A quale nuovo progetto sta lavorando?
Sarò in studio e mi esibirò dal vivo con Branford Marsalis. Da dicembre stiamo lavorando a un nuovo progetto da far uscire per la prossima primavera o al massimo in estate.

Nicola Gaeta